Morti in mare e navi umanitarie all’ancora

di Paolo Naso

Mentre si discute nelle aule parlamentari e giudiziarie e si impongono incomprensibili veti ai soccorsi in mare migliaia di persone che si potrebbero salvare continuano invece a morire. Inaccettabile

Si chiamava Youssef, aveva sei mesi. È l’ennesima vittima dell’immigrazione irregolare gestita da trafficanti senza scrupoli che caricano uomini, donne e bambini su imbarcazioni insicure e fatiscenti con l’obiettivo di allontanarsi dalle coste libiche. Dopo, in mare aperto, accada quel che deve accadere. In questo caso il barcone è stato soccorso dall’unica nave delle Ong che attualmente opera nel Mediterraneo: la “Open Arms” sulla quale, in passato, si sono imbarcati vari volontari di Mediterranean Hope (Mh), il programma Rifugiati e Migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Quando nella mattinata dell’11 novembre la nave di soccorso ha raggiunto la zona del naufragio, però, la tragedia era già compiuta e, oltre a cento sopravvissuti, l’equipaggio ha dovuto raccogliere anche cinque cadaveri. Compreso quello di una donna madre di Bangaly, un bambino di sei anni al quale il padre – sopravvissuto – ha dovuto spiegare che la mamma «era finita in acqua». Youssef invece era ancora vivo ma in evidente crisi respiratoria e, dopo qualche ora, è morto. Il suo corpo è stato sepolto a Lampedusa, in quel cimitero che un giorno diverrà un vero e proprio memoriale delle morti in mare.

L’ennesima bara sepolta sull’isola il 14 novembre grida qualcosa all’Italia e all’Europa. Al momento “Open Arms” è l’unica nave delle Ong che riesce a operare mentre tutte le altre, a causa di veti amministrativi confusi e persino contraddittori, sono costrette all’ancora in vari porti. Tra queste anche “Sea Watch IV”, la nave umanitaria sponsorizzata dalle chiese protestanti tedesche che sin qui ha potuto effettuare una sola missione, salvando oltre 350 persone. Un titolo di merito, si potrebbe pensare, e invece, a missione conclusa, la nave è stata bloccata con motivazioni tecniche alle quali risulta difficile non attribuire un significato politico. I ripetuti interventi della Ekd, la Chiesa protestante tedesca che conta oltre 21 milioni di membri, non sono serviti a nulla. Neanche l’incontro che il suo presidente, il vescovo Heinrich Bedford-Strohm, è riuscito ad avere con il ministro dei Trasporti Paola De Micheli – sotto il cui dicastero opera la Guardia Costiera – sembra poter risolvere la questione.

Da una parte vi sono le ragioni etiche di un pastore a capo di una grande Chiesa protestante europea per la quale il soccorso in mare è un dovere dettato dalla coscienza cristiana, una sorta di imperativo evangelico al quale non ci si può sottrarre; dall’altra si oppongono gli argomenti tecnici di un ministro della Repubblica che si allinea alla Guardia Costiera puntualizzando che “Sea Watch IV”, così come molte altre navi delle Ong, non è “certificata” per il soccorso in mare. Posizioni che restano lontane e che prevedibilmente si confronteranno di fronte a un tribunale. Sinora, come è noto, nessuna sentenza penale ha fermato le Ong, sempre assolte dalle accuse subite, prima tra tutte quella di collusione con gli scafisti e di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Ma ciò che non hanno fatto i tribunali stanno facendo provvedimenti amministrativi difficilmente impugnabili.

Mentre si discute nelle aule parlamentari e giudiziarie, a noi resta l’immagine di una madre di diciassette anni che piange il suo Youssef al quale sperava di offrire un destino migliore di quello che, scappando dalla Guinea, aveva trovato nell’inferno dei campi libici. Gli operatori di Mediterranean Hope, gli attivisti del Forum Lampedusa solidale, il parroco dell’isola don Carmelo La Magra l’hanno abbracciata e sostenuta nel momento più terribile della sua vita; un altro operatore di MH, Francesco Piobbichi, ha disegnato l’immagine che sarà affissa sulla tomba scavata nel piccolo cimitero dell’isola. È una piuma leggera che si stacca da un mare cupo le cui onde hanno la forma tagliente di un filo spinato. Dal 1° gennaio di quest’anno i “morti di immigrazione” nel Mediterraneo sono stati quasi 600; oltre 20.000 le vittime dal 2013 a oggi e gli sbarchi del 2020, nonostante gli accordi con la Libia e la Tunisia, hanno superato la quota di 30.000. È la prova che l’azione umanitaria delle Ong – ormai sostanzialmente ferme – non è un fattore di attrazione dell’immigrazione irregolare, che prosegue perché alimentata dal collasso sociale e politico di una vasta area nordafricana e subsahariana. Fermare le Ong è una inutile rivincita della peggiore politica xenofoba. Il dilemma vero dell’Italia e dell’Europa è se rispettare il diritto internazionale e sostenere chi salva le vite in mare o assecondare il vento populista che chiede porti chiusi e impossibili muri lungo il Mediterraneo.

MH
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