Giornata Mondiale del Rifugiato 2025 – “IL SOGNO, SENTIRSI A CASA OVUNQUE”

Giornata Mondiale del Rifugiato 2025

Giornata Mondiale del Rifugiato 2025

Roma, 19 giugno – Quelli che seguono sono i testi di due interventi letti durante l’evento organizzato da Mediterranean Hope in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato. Il primo è di Marta Bernardini, Coordinatrice nazionale del progetto Mediterranean Hope, mentre il secondo di Hussein Abulfazil, rifugiato di origine afghana arrivato in Italia con i corridoi umanitari della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia.


PERCHÉ SIAMO QUI OGGI

Oggi siamo qui come Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), come chiese protestanti che vedono ancora come centrale e necessario occuparsi dei diritti delle persone rifugiate. E per questo, più di 10 anni fa, nasce Mediterranean Hope – il Programma Rifugiati e Migranti della FCEI.

Il 20 giugno è l’appuntamento annuale voluto dalle Nazioni Unite per “riconoscere la forza, il coraggio e la perseveranza di milioni di persone costrette a fuggire nel mondo a causa di guerre, violenza, persecuzioni e violazioni dei diritti umani[1]”.

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha scelto di celebrare la Giornata Mondiale del Rifugiato al fine di intensificare gli sforzi per prevenire e risolvere i conflitti e contribuire alla pace e alla sicurezza dei rifugiati[2].

Secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, alla fine dell’aprile 2025 i migranti forzati in tutto il mondo sono 122,1 milioni (principalmente provenienti da Sudan, Siria, Afghanistan, Ucraina). Il 60% di questi sono sfollati interni.

SOGNO E CASA

Il titolo dell’evento di oggi è “Il sogno, sentirsi a casa ovunque”. Ringrazio per questo stimolo, perché credo che sia importante parlare di – e far parlare – persone rifugiate pensando a due concetti: il sogno e la casa. Il sogno mi fa pensare ad altre tre parole: desiderio, coraggio e futuro.

Nell’esperienza che abbiamo maturato in questi anni, abbiamo riflettuto molto sul desiderio. Le persone migranti non si spostano meramente per soddisfare dei bisogni primari – seppur leciti – come la sicurezza, non essere perseguitati e uccisi, provvedere alla propria famiglia, ecc. Sono, come lo siamo tutti, esseri desideranti: il desiderio è un motore di movimento, è una spinta a voler raggiungere i nostri bisogni più profondi.

Pensate un attimo a quali sono i vostri desideri più intimi: siete in movimento per raggiungerli? C’è qualcosa che ve lo impedisce?  E quel qualcosa dipende da voi o è fuori da voi?

Poi c’è il coraggio. Credo che il passaggio dal desiderio al sogno sia proprio il coraggio. Il coraggio di dirsi quello che si vuole veramente e fare di tutto per raggiungerlo: il sogno di arrivare in Italia, il sogno di studiare, il sogno di crescere i propri figli senza guerra, il sogno di diventare sé stesse.

Sognare il proprio sogno, può spingerti a raggiungerlo. Non voglio essere retorica o superficiale, è evidente che ad alcune persone non è garantito il diritto a sognare. Anche sognare può essere un privilegio, soprattutto quando si pensa a sopravvivere.

Vorrei condividere con voi un episodio: siamo a Scicli, in Sicilia, con una collega incontriamo alcune persone arrivate con i Corridoi umanitari dalla Libia, in accoglienza presso la nostra Casa delle Culture. La collega chiede a Ahmer Hussain proprio quale fosse il suo sogno. E lui risponde, pensieroso, che intanto è felice così, al sicuro, in un posto dove poter dormire e poter mangiare. Dice “La Libia è il posto più brutto che ho visto in Africa, nella mia vita. Ti possono bruciare, sparare, mettere in carcere, ucciderti per rubarti un auricolare. Ora voglio solo stare bene” [3]. Quanto può essere sciocca a volte una domanda, se siamo noi – con il nostro privilegio bianco – a porla.

Nel nostro lavoro abbiamo l’onore di incontrare tante persone che ci provano comunque a sognare. Sempre a Scicli Yaqob Idres ci dice: “Qui è tutto diverso, puoi sognare di andare a lavoro, puoi studiare, puoi costruire un piccolo futuro, un po’ di autonomia, andare avanti”. E il futuro? “Mi vedo con un piccolo progetto, con una famiglia, con dei bambini, e vorrei aiutare le persone che hanno bisogno. Per me l’importante è la pace”.

Il sogno mi fa proprio pensare anche al futuro. Ultimamente mi sono imbattuta in due termini che mi hanno scossa profondamente: infuturizzazione e futuricidio.

In podcast[4] in cui si parlava di adolescenti è stato citato il filosofo e psicanalista Miguel Benasayag che dice di come oggi il futuro sia visto più come una minaccia che come una promessa. Nel testo L’epoca delle passioni tristi[5] dice che “assistiamo, nella civiltà occidentale contemporanea, al passaggio da una fiducia smisurata a una diffidenza altrettanto estrema nei confronti del futuro”.

In un presente caratterizzato da volatilità, incertezza, complessità e ambiguità[6] non sappiamo vedere neanche il futuro, soffriamo di infuturizzazione.

Il futuricidio è un concetto usato dalla politologa Stéphanie Latte Abdallah del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs), per descrivere il trattamento inflitto da Israele alla Striscia di Gaza. “È una forma di violenza diretta contro una popolazione civile per sradicarla, costringerla a spostarsi, distruggere ogni possibilità di proiettarsi nel futuro”. “L’idea di futuricidio comprende diverse forme di distruzione. Genocidio, ecocidio, culturicidio. È un attacco al futuro stesso” [7].

Ci può essere il sogno senza futuro?

L’ultima riflessione che vorrei condividere con voi è sulla casa. Nei nostri progetti è spesso centrale il “bene casa”: Casa delle culture a Scicli; vari luoghi di accoglienza, anche qui a Roma, che diventano casa; il diritto all’abitare per i lavoratori braccianti in Calabria e nel saluzzese dove abbiamo aperto l’ostello sociale Dambe So che in lingua Bambarà significa Casa della dignità.

Anche qui riprendo un concetto che trovo illuminante: il diritto alla “presenza”[8]. Le scrittrici Naomi Klein e Astra Taylor ci invitano a “un impegno per il diritto alla ‘presenza’ di questo pianeta malato, di questi corpi fragili, per il diritto di vivere nella dignità dovunque ci troviamo su questo pianeta, anche quando le inevitabili crisi ci costringeranno a spostarci. La ‘presenza’ può essere mobile, libera dai nazionalismi, radicata nella solidarietà, rispettosa dei diritti indigeni (e aggiungo io delle persone rifugiate e migranti) e svincolata dalle frontiere.”

Se casa è il luogo dove poggio i miei piedi, casa è qui nel presente. Significa battersi perché le persone abbiano un luogo sicuro e dignitoso da chiamare casa e al tempo stesso che chi qui abita diventi parte di quella lotta per il presente.

Ci può essere il sogno senza futuro?

Nel vocabolario di Mediterranean Hope pensato per il nostro decennale abbiamo scelto tra tante la parola Speranza (che non a caso è una delle due parole che compongono il nome del nostro progetto). “Speranza è aprire il futuro a chi pensa di non averne uno, essere già oggi cittadini e cittadine di un mondo nuovo e più giusto che ancora deve affermarsi.”

Il sogno quindi non è proiettato in un futuro incerto, ma si esprime qui nel presente. Un presente per il quale tutte e tutti insieme abbiamo il dovere, e il diritto, di lottare.

Grazie.

Marta Bernardini

[1] https://www.unhcr.org/it/eventi/giornata-mondiale-del-rifugiato-2025.
[2] https://www.onuitalia.it/giornata-mondiale-del-rifugiato-20-giugno-2024/.
[3] https://www.mediterraneanhope.com/2023/06/25/mi-hanno-venduto-come-schiavo-i-racconti-di-chi-e-stato-in-libia/.
[4] Sigmund, Daniela Collu, episodio “Identità, sostantivo plurale”.
[5] L’epoca delle passioni tristi, di Miguel Benasayag, Gérard Schmit, Feltrinelli, 2013.
[6] Si usa l’acronimo VUCA che in inglese sta per volatility, uncertainty, complexity e ambiguity.
[7] Internazionale n.1616 anno 32, 30 maggio 2025, “Come uccidere il futuro” di Samuel Forey, Clothilde Mraffko, Le Monde, Francia.
[8] Internazionale n.1613 anno 32, 09 maggio 2025, “Fascisti dell’apocalisse” di Naomi Klein, Astra Taylor, The Guardian, Regno Unito.

Signore e signori, cari amici,
oggi siamo qui non solo per celebrare la Giornata del Rifugiato, ma per ascoltare storie, persone, e la forza silenziosa di milioni di esseri umani che sono stati costretti a lasciare tutto e ricominciare da capo.

Mi chiamo Hussein, e sono uno di loro.

Sono nato a Kabul, una città che mi ha regalato sia ricordi felici che momenti molto difficili. Ricordo il profumo del pane e del tè al mattino, i bambini che giocavano per strada e andavano a scuola, e i vicini che si comportavano come una famiglia. Ma ricordo anche il giorno in cui tutto è cambiato, la paura in casa, il silenzio, le domande senza risposta. Ricordo cosa vuol dire vivere in guerra, vedere i sogni crollare e dover prendere la decisione più dura della mia vita: lasciare tutto in cerca di sicurezza.

Quando lasci il tuo Paese non per scelta, ma perché la tua vita è in pericolo, porti con te solo uno zaino. Ma dentro di te porti i ricordi, il dolore, e un coraggio che non sapevi di avere.

Essere un rifugiato non è solo attraversare una frontiera o arrivare in un nuovo Paese. Vuol dire ricostruire la tua identità. Vuol dire lasciare una parte di te stesso. Mi mancano i miei amici: molti di loro ora vivono in altri Paesi, alcuni stanno ancora cercando una speranza, altri, purtroppo, non ce l’hanno fatta. Mi dispiace a loro.

Quando sono arrivato in un nuovo Paese, avevo speranza, ma anche paura e confusione. La lingua era diversa. Le strade sconosciute. Quando sono arrivato in Italia, avevo tanti dubbi e più domande che risposte.

Ma piano piano le cose sono cambiate. Non perché fosse facile, ma perché ho incontrato persone gentili. Ho trovato nuove amicizie che sembrano una nuova famiglia. Ho trovato città che, poco a poco, sono diventate casa. E ho trovato persone che hanno scelto di stare con noi, che ci hanno fatto sentire meno soli.

Alcune di queste sono le persone della FCEI,  la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia che, con i loro progetti e la loro umanità, hanno aiutato me e tante altre persone a fare veri passi avanti per ricominciare una nuova vita. Non ci hanno dato solo aiuto, ci hanno dato dignità, ci hanno aperto le porte ai corsi di lingua, alla comprensione culturale e soprattutto al legame umano. Grazie al vostro supporto ho potuto imparare l’italiano, cominciare a lavorare e a partecipare alla vita della mia nuova comunità, iniziando a vedere l’Italia non solo come un rifugio, ma come una possibile casa. Mi avete insegnato che integrare non significa perdere la propria identità, ma costruirne una nuova insieme.

Ovviamente il cammino non è senza ostacoli e difficoltà.

I rifugiati affrontano ancora tante difficoltà, nel trovare una casa, un lavoro, o semplicemente accettazione. Ci sono ancora stereotipi, paure e troppa burocrazia. Ma quando persone, istituzioni e associazioni lavorano insieme per abbattere questi ostacoli, il cambiamento è possibile.

Vi invito a ricordare che dietro ogni rifugiato c’è una storia umana: un bambino che vuole andare a scuola, un genitore che vuole costruire un futuro, un giovane come me che continua a credere nella pace e nella speranza.

Oggi non sono qui solo per raccontare la mia storia. Parlo anche di altre persone, di storie difficili, sì, ma piene di forza, di sogni e di possibilità.

Continuiamo a costruire comunità dove nessuno deve scegliere tra sicurezza e dignità. Ricordiamoci che la pace inizia quando ci vediamo non come stranieri, ma come vicini.

Al popolo italiano: grazie per la vostra generosità, la vostra solidarietà e la vostra umanità.

Alla FCEI: grazie per essere il ponte tra la paura e la speranza (Hope).

Ai miei fratelli e sorelle rifugiati: ricordate che siete molto più del vostro status. Portate con voi conoscenza, cultura e forza. Avete valore. Appartenete. In bocca al lupo!

Grazie per aver ascoltato, per essere al nostro fianco, e per credere in un mondo dove nessuno viene lasciato indietro.

Buona serata!

X