Se si indeboliscono i soccorsi in mare

Marta Bernardini e Francesco Piobbichi – NEV

Lampedusa, Agrigento, 12 agosto 2015 – Si muore, ancora, e si muore ovunque. Da Ceuta a Zwuara si muore, si muore soffocati nelle valigie, lungo i binari, nei barconi che affondano, si muore chiusi nelle stive. È una brutta estate questa del 2015, che segue a una primavera che sembrava vedere ridotti i morti in mare. Ieri sera sono arrivate a Lampedusa le decine di persone scampate all’ultimo naufragio avvenuto a largo della Libia, donne e uomini stremati con ferite e fratture, sotto shock, come lo era la madre che negli scorsi giorni ha cercato disperatamente la propria bimba di 5 mesi, mai più ritrovata, inghiottita dal mare.

Storia che ci ha tolto dalla bocca il sorriso di gioia, invece, per il coraggio di un padre palestinese che miracolosamente ha nuotato per riprendersi dalle onde sua figlia e sua moglie. Sono puntini questi migranti, che il mare accoglie per sempre, come la foto che ha pubblicato la Marina Militare dopo la tragedia di qualche giorno fa. Formano la punteggiatura di una storia sommersa per sempre dalle onde. E poi ci sono le storie di chi riesce ad arrivarci in Italia e Europa, ma rimane incagliato nel nostro sistema di accoglienza. Ieri mattina un gruppo di minori eritrei ha manifestato dirigendosi dal Centro di accoglienza verso il porto di Lampedusa, perché gli era stato garantito che sarebbero partiti per la Sicilia insieme ad altri connazionali compagni di viaggio, ma ciò non è avvenuto e sono stati separati. Tutte queste storie, e con loro quelle mai conosciute, influenzano in qualche modo le politiche europee? No, non lo fanno. Anzi, se leggiamo ciò che scrive uno dei più attenti osservatori di quanto accade nella frontiera della Fortezza europea, il professore palermitano Fulvio Vassallo Paleologo, ci accorgiamo che forse questo recente aumento di incidenti in mare ha delle responsabilità. Scrive Paleologo nel suo blog: “a partire dal mese di luglio si sono diradate le attività di ricerca e salvataggio delle missioni di Frontex nel Mediterraneo, ma cresce in modo esponenziale la pressione sugli Stati, e quindi sulle forze  di polizia dei paesi membri, per inasprire le attività di identificazione, previste dai Regolamenti Dublino ed EURODAC, aggiungendo al consueto fotosegnalamento il prelievo forzato delle impronte digitali, anche con il ricorso all’uso della forza”. A sentire alcune fonti, e a guardare con più attenzione i comunicati stampa, sembra infatti che dell’operazione Triton si sia persa traccia. Se leggiamo bene le notizie ci accorgiamo che molti salvataggi vengono addebitati a Triton ma in realtà sono fatti dalla Guardia Costiera o da altre imbarcazioni commerciali. Anche le molte navi militari che fino a giugno operavano nel quadrante a sud di Lampedusa sembra si sia persa traccia o, a quanto pare, sembra che esse siano state spostate molto più a nord, vicino Malta. Poche le navi militari operative, con l’eccezione dell’Irlanda che in maniera autonoma sta intervenendo con efficacia nei salvataggi in mare. Siamo in attesa di nuovi sviluppi dell’operazione Eunavfor Med, ed è difficile capire cosa accada in questo momento nel Mediterraneo, mare al tempo stesso distante e vicino a noi. Eppure qualcosa di nuovo quest’anno sembra essere stato prodotto ed è per noi un elemento significativo. L’intervento organizzato della società civile in mare, che sembra compensare il fatto che i salvataggi si siano diradati, rappresenta una interessante novità sulla quale sviluppare una riflessione per il futuro. Di questo ne abbiamo parlato a Lampedusa con il giornalista di Internazionale Stefano Liberti. Liberti si è imbarcato su una delle nave di Medici Senza Frontiere e ha visto da vicino i salvataggi in mare, un’osservazione diretta che gli ha permesso di cogliere alcune novità sulle rotte migratorie, per esempio che le partenze avvengono quasi esclusivamente con i gommoni e sono destinate a uno specifico quadrante di mare a ridosso delle piattaforme petrolifere. Liberti ci ha spiegato di alcuni cambiamenti: “inizialmente, per sopperire la carenza di soccorsi in mare, sono scese in campo iniziative private, Moas nel 2014 a cui sono seguite le iniziative di MSF nell’estate 2015. Il modo di operare di queste missioni è integrato al meccanismo di ricerca e soccorso coordinato dalla Guardia Costiera. Queste iniziative – continua Liberti – non sono quindi solo simboliche, come quella della Kap Anamur del 2006 che si mosse in violazione alle leggi allora vigenti. La missione di MSF ha un approccio politico, a differenza di Moas, dichiarando esplicitamente che si adoperano nei soccorsi in mare perché l’Europa non fa abbastanza”. Per il giornalista “queste operazioni sono molto più aperte alla stampa rispetto a quelle della Marina Militare, comunicano maggiormente e in maniera differente, raccontando la storia delle persone. In più queste missioni hanno un approccio meno asettico, se guardiamo come comunicano sia Moas che MSF via Twitter ci accorgiamo che hanno un modo di raccontare il fenomeno migratorio che mette al centro le persone”. Per Liberti il vero rischio non deriva dal fatto che questi soccorsi possano sostituire, deresponsabilizzando, il ruolo dei governi, ma che così si distolga l’attenzione dal vero problema, quello di aprire canali umanitari. Dalla pagina facebook di Medici Senza Frontiere, dopo alcuni soccorsi avvenuti i primi di agosto e che hanno visto anche il recupero di 5 persone decedute per il lungo viaggio, si legge: “Questo episodio evidenzia la necessità di una maggiore capacità di ricerca e soccorso vicino alle coste libiche, poiché ogni ritardo può diventare questione di vita o di morte – ha commentato Loris De Filippi, presidente italiano di Medici Senza Frontiere –  aggiungendo che “finché non saranno creati nuovi canali legali e sicuri per raggiungere protezione in Europa, le persone vulnerabili continueranno a rischiare la propria vita su barche sovraffollate.”

MH
MH
X