L’Europa e Lampedusa: ne parliamo con monsignor Gian Carlo Perego

di Alice Fagotti e Alberto Mallardo. Lampedusa, Agrigento (NEV), 4 novembre 2015 – I mesi invernali a Lampedusa sono molto diversi da quelli estivi. L’isola si svuota, i turisti se ne vanno e l’isola rimane silenziosamente in attesa. Nonostante questo, la sua posizione di limes, di confine, ha reso, fin dall’antichità, Lampedusa un punto d’incontro tra genti diverse. Vivere ai margini diventa quindi opportunità. Il confine europeo si trasforma in luogo centrale dove analizzare i fenomeni migratori, le politiche europee e gli scambi tra culture diverse da posizione privilegiata. La costante presenza di accademici, ricercatori, giornalisti, associazioni, attivisti e gente di passaggio regala la possibilità di confrontarsi con persone sempre nuove provenienti da contesti differenti. Oggi putroppo dobbiamo però sottolineare l’impossibilità di incontrare quelle persone percorrono il cammino più difficile. I migranti sono infatti chiusi all’interno dell’hotspot di Lampedusa senza alcuna possibilità di uscire.

Per riflettere intorno al rapporto tra Lampedusa, migrazioni ed Europa ieri si è tenuta una iniziativa promossa dalla Fondazione Migrantes. Un incontro tra diverse esperienze, arricchito dalla presenza del coro Migrantes Messina, dagli studenti e delle studentesse del Liceo Scientifico “E. Majorana” di Lampedusa, e dal direttore generale della Fondazione Migrantes, monsignor Gian Carlo Perego. Abbiamo colto l’occasione della sua presenza per porgergli alcune domande.

Spesso la popolazione di Lampedusa viene presa ad esempio per la sua generosità e solidarietà, nota differenze con il resto d’Italia?

Lampedusa ha fatto il cammino che vorremmo fosse fatto da ogni comunità. Di fronte agli arrivi massicci di persone migranti la prima reazione sul piano politico a Lampedusa fu di invitare alla chiusura, al respingimento, interpretando questi arrivi come un’invasione. Tutti ricordiamo nel 2011 una persona che si presentò in televisione con una mazza da baseball dicendo: “accoglieremo così i migranti”. Fortunatamente le forze giovanili, sociali ed ecclesiali hanno reagito a quell’immagine e c’è stata una trasformazione della maggior parte delle persone che hanno voluto costruire un’immagine diversa dell’isola. Immagine che in seguito è risultata vincente e che ha fatto addirittura pensare a Lampedusa per il premio Nobel per la pace. Questo cammino di trasformazione che è avvenuto a seguito di numerose tragedie, partendo dall’ospitalità in famiglia, dall’incontro tra giovani che hanno saputo valorizzare il patrimonio culturale di chi è arrivato sull’isola, è sicuramente un elemento esemplare. Questa solidarietà fra soggetti diversi e di ispirazione diversa, con il contributo esterno di persone e organizzazioni che sono venute a Lampedusa e si sono messe al fianco delle persone dell’isola, ha fatto sì che essa interpretasse in maniera diversa il ruolo di confine europeo. Questo cammino però non deve essere considerato come un dato acquisito, occorre conservarlo. Sul piano educativo, infatti, non basta l’emozione di un momento ma è necessaria una continua crescita sociale. Come Migrantes e con il progetto “Il valore della vita” ci siamo prefissi di entrare nelle scuole, per fare in modo che i ragazzi facciano entrare il tema delle migrazioni nella loro cultura e nel loro percorso intellettuale e di relazione con l’altro. Questo per evitare che ci possa essere un ritorno di quella visione che legge nelle migrazioni un pericolo per la sicurezza.

In molti suoi interventi pubblici lei ha auspicato una maggiore cooperazione tra stati europei. Oggi come giudica le nuove misure adottate dall’UE, anche alla luce delle criticità emerse nella gestione degli hotspot?

L’Europa finalmente ha fatto sì che l’accordo di Dublino fosse messo in discussione. Un primo aspetto importante è quindi questo progetto di ricollocazione, di condivisione di un diritto d’asilo che tutti i 28 stati membri hanno firmato. Questa condivisione di responsabilità non dovrà però essere un fatto volontario ma un fatto sostanzialmente obbligatorio, strutturale nei servizi di ogni stato. Un secondo aspetto importante è certamente l’impegno che l’Europa ha voluto mettere nell’agenda sull’immigrazione che prevede una sorta di piano Marshall per l’Africa che vedrà lo stanziamento di oltre un miliardo e ottocento milioni di euro. Speriamo che queste risorse non servano per costruire dei campi profughi nei paesi di provenienza e transito delle persone migranti, non servano per i respingimenti, non servano per i rimpatri ma servano per la crescita della salute, della scuola, della sicurezza di quei paesi da cui oggi le persone scappano. Un terzo elemento della strategia europea è invece da valutare in modo critico. Infatti, è stato deciso di mantenere le stesse risorse militari per quanto riguarda il controllo delle frontiere, le espulsioni e i respingimenti. Questi sono aspetti assolutamente deboli che vanno nella direzione di un sostanziale ritorno del controllo massiccio delle frontiere, vanno nella direzione di una selezione delle persone che entrano nel territorio europeo. Auspichiamo invece un’Europa che legga la frontiera come uno dei luoghi attraverso i quali si possa tutelare il diritto alla protezione internazionale. In questo senso abbiamo letto in maniera molto critica e preoccupata la nascita degli hotspot che ritornano ad essere sostanzialmente dei CIE e quindi delle carceri. L’abbiamo visto anche qui a Lampedusa, di fatto le persone non possono più uscire e vengono invece inserite in un meccanismo di selezione che applica dei criteri assolutamente discrezionali, con la lista dei paesi sicuri considerata senza leggere la storia personale delle singole persone. Consideriamo quindi queste misure un grave passo indietro nella sicurezza della protezione internazionale. Avremmo invece bisogno di una lettura molto più attenta della storia delle persone che arrivano in Italia e di un ampliamento di quelle tre, quattro possibilità di protezione attualmente previste.

Per concludere, la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), la Comunità di Sant’Egidio e la Comunità Papa Giovanni XXIII, sono impegnate nel progetto di costruzione di corridoi umanitari dal Marocco e dal Libano. Come vede questo esempio di ecumenismo?

Dal punto di vista ecclesiale è un segno molto bello, soprattutto sul piano politico è una grossa provocazione che sottolinea la necessità di canali umanitari sicuri. E’ quindi importante valorizzare maggiormente dei canali umanitari che possano essere lo strumento che aiuti la sicurezza delle persone nel loro viaggio. Questo progetto è da un lato un esempio di ecumenismo che parte dalla solidarietà, dall’altro è una forte provocazione per la politica in quanto propone uno strumento applicabile per tutti i richiedenti asilo.

MH
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