La protesta degli eritrei a Lampedusa

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di Alberto Mallardo – NEV

Lampedusa, Agrigento, 13 gennaio 2016 – In queste settimane nelle strade di Lampedusa è riecheggiato molte volte un grido: “No fingerprints!”. Ad urlare i circa duecento ragazzi eritrei trattenuti sull’isola dal mese di dicembre. I ragazzi rifiutano di farsi identificare dal personale della polizia scientifica che opera nel primo hotspot europeo in quanto rifiutano i meccanismi oggettivizzanti del sistema di relocation europeo. La loro protesta potrebbe apparire ad un primo e svogliato sguardo paradossale. In molti nel resto d’Italia hanno commentato sottolineando l’impertinenza di questa protesta. “Ma come, noi li accogliamo e loro protestano?”, è stato uno dei pensieri ricorrenti tra i tanti che hanno guardato a Lampedusa senza cogliere l’importanza di queste vicende.

Per comprendere gli ultimi eventi avvenuti sull’isola e per capire quale futuro si prospetti ai migranti che approderanno a Lampedusa è necessario chiarire alcune delle criticità insite nella road map adottata dal governo italiano a seguito delle decisioni prese dal Consiglio europeo del 14 settembre 2015. Per far fronte ai flussi migratori e per alleggerire la pressione sull’Italia e sulla Grecia, l’UE ha deciso di ricollocare parte dei migranti giunti sul territorio italiano e greco negli altri stati membri.

I migranti che dovrebbero essere ricollocati, come chiaramente espresso dalla circolare del Ministero dell’Interno 14106, sono “quelli appartenenti a quelle nazionalità il cui tasso di riconoscimento di protezione internazionale è pari o superiore al 75% nell’ultimo quadrimestre 2015”. Si tratta perciò delle persone provenienti dalla Siria, dall’Iraq e dall’Eritrea. Tutti gli altri vengono di fatto esclusi.

I migranti eritrei rientrano in questo processo, eppure protestano. Protestano perché dopo essere scappati da una delle più terribili dittature africane che li costringe al servizio militare di leva obbligatorio permanente per tutti tra i 18 e i 40 anni, e che rapisce e tortura chi si oppone al regime di Afewerki, vogliono che i diritti stabiliti dalla Convenzione di Ginevra, dalle leggi europee e da quelle dei singoli stati membri siano rispettati.

Come ci ha raccontato Moses, ragazzo eritreo conosciuto a Lampedusa: “Il nostro obbiettivo è ricongiungerci con i nostri familiari che vivono già in Europa. Purtroppo, il meccanismo dei ricollocamenti non tiene conto della nostra volontà. Vogliono decidere per noi del nostro futuro come se fossimo degli oggetti”. Come rifugiati vogliono potersi autodeterminare, vogliono decidere dove chiedere protezione e vivere.

La loro protesta quindi prosegue ad oltranza, nella consapevolezza di voler evitare la sorte toccata a quelli di loro che nei giorni scorsi avevano lasciato l’isola senza lasciare le impronte, e che tuttavia sono stati poi “convinti” anche con l’uso della forza a farsi identificare, come previsto da una circolare del Ministero dell’Interno 28197/2014 del 25 settembre 2014, nel CIE di Trapani Milo, oggi hotspot.

Da oltre 24 ore alcuni di loro hanno deciso di entrare in sciopero della fame, fintanto che non riceveranno rassicurazioni e garanzie dalle autorità italiane. Nei prossimi giorni se lo riterranno opportuno torneranno a manifestare nelle strade di Lampedusa per ricordare a tutti noi che oltre un pasto caldo e un posto letto ciò che pretendono è il rispetto della loro dignità di esseri umani.

MH
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