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Sul Il Fatto Quotidiano, Anna Vullo racconta l’esperienza della Casa delle Culture di Mediterranean Hope a Scicli. #accoglienza

Scicli ovvero l’anti-Capalbio – L’accoglienza si fa in centro

Laki è indeciso se fare due passi sino a piazza Italia o restare al centro a giocare a ping pong e ascoltare musica. Fa caldo, la pigrizia prevale. Meglio conservare le energie per la sera: c’è il festival della Taranta, si rincaserà tardi. “Ragazzi, è di qualcuno di voi la 500 qui fuori?”, si informa una vigilessa prima di multare l’auto in divieto di sosta. Sara, due anni, fa capolino incuriosita con la testa di treccine strette negli elastici colorati. La vigilessa finge di morderle un braccio, poi le sbaciucchia le manine. Impossibile resistere ai suoi occhi da cerbiatta. La piccola è la beniamina della città e un esempio di integrazione riuscita: sua madre, nigeriana, l’ha partorita dieci giorni dopo essere approdata in Sicilia con uno dei tanti barconi della speranza. Oggi ha un contratto di lavoro a Scicli e la bambina è accudita da un esercito di nonni, zii e cuginetti “adottivi” che l’adorano.

Mentre anche la Genova-bene, dopo le polemiche nella Capalbio radical chic, annuncia battaglia contro la decisione della Prefettura di ospitare 30 migranti nella via dello shopping, a Scicli, nel cuore della Sicilia barocca, il progetto Mediterranean Hope dimostra che è proprio nel centro delle città che si possono avviare percorsi di integrazione. A Capalbio, invece, vorrebbero i migranti in campagna.

La Casa delle Culture, questo il nome della struttura di Scicli, è un edificio di tre piani in corso Mazzini, a due passi da via Mormino Penna, la via dello struscio costellata di gioielli barocchi e resa celebre dallo sceneggiato del commissario Montalbano. Ci vivono 24 minori stranieri non accompagnati, in prevalenza africani. Adolescenti dai 15 ai 17 anni che le famiglie di origine hanno incoraggiato a fuggire dai propri Paesi, oppure orfani di madre o di padre. Partiti e sbarcati soli. Qualche passante entra a curiosare, i negozianti del quartiere hanno imparato a riconoscere quei visi color caffelatte che vanno a comprare il pane o le medicine con i volontari.

“Anche a Scicli in principio ci hanno fatto la guerra”, commenta la responsabile della Casa delle Culture, Giovanna Scifo. “I commercianti della zona avevano raccolto le firme per farci spostare altrove. Dicevano che avremmo ucciso il turismo. Ma la nostra idea di accoglienza andava nella direzione opposta: stare in centro storico per inserirsi nel tessuto della città, mandare i ragazzi a scuola con i propri pari, incoraggiare gli abitanti di qui a confrontarsi con culture diverse”.

Ha funzionato. “Oggi ci conoscono tutti e ci sostengono. Lo scorso Natale, le stesse famiglie che avevano firmato la petizione contro il Centro, hanno invitato i nostri ragazzi a pranzo con i loro figli”.

Da quando è nata, nel 2014, la Casa delle Culture ha ospitato 408 migranti. Vi lavorano nove persone stipendiate, tra cui l’Imam di Ragusa Redouane El Khadiri nel ruolo di mediatore e interprete, oltre a volontari italiani, inglesi e tedeschi. I finanziamenti arrivano dall’8 per mille della Chiesa valdese battista; il progetto porta la firma della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia. “È inumano continuare a trattare il migrante come un’emergenza”, continua Giovanna Scifo. “Dobbiamo tutti sporcarci le mani. Aprire le porte. Creare strutture e luoghi e idonei. Nessun minore dovrebbe stare nell’hotspot di Pozzallo più di 48 ore”.

I minori stranieri non accompagnati aumentano: 11.797 gli arrivi nei primi sette mesi del 2016, secondo gli ultimi dati, contro i 12.360 dell’intero 2015. Moltissimi sono ancora in Sicilia. Quella di Scicli è la loro casa, o almeno una casa per loro, un luogo dove sentirsi al sicuro nella fase di prima accoglienza. Non tutti vogliono restare: chi attende i documenti per raggiungere la sorella a Parigi, chi aspira a trasferirsi al Nord nella speranza di un’opportunità di studio o di lavoro. “Facciamo anche relocation, ovvero ricongiungimento con le famiglie, e assistenza legale per la richiesta di asilo”, precisa Scifo. “In partnership con altri centri, una volta individuato un percorso idoneo, avviamo i minori alla seconda accoglienza, cioè in comunità specializzate nell’ospitalità a lungo termine”.
Gibi, 15 anni, del Gambia, ha passato sei mesi in Libia. Per raggiungerla ha attraversato le strade polverose dell’Africa con mezzi di fortuna. Poi il viaggio in barca: tre giorni in mare con altri 129. Infine una settimana nell’hotspot di Pozzallo, con centinaia di profughi ammassati uno sull’altro in condizioni igeniche disastrose. “Lì brutto”, sospira. Sono tanti i traumi taciuti. Qualcuno prova a trovare le parole per ricordare negli incontri settimanali con la psicologa dell’associazione Terres des Hommes, altri preferiscono lasciare che sia il tempo a lenire le ferite.
Gibi è tra gli ospiti più giovani. Ha occhi neri sempre vigili, due stecchi secchi sotto i pantaloni corti. Sta imparando l’italiano. “Cappelli”, esclama indicando la testa ricciuta. “No: capelli!”, ride. Anche Lamar ce la mette tutta per cavarsela con la nostra lingua. Fin quasi all’ossessione: traduce i verbi dal francese all’italiano (viene dalla Guinea ed è francofono) e per ciascuno pretende di imparare sinonimi e sfumature. Tuti ha le mani lunghe e il portamento fiero dei Tuareg del deserto del Niger. Per insegnargli la calligrafia Leonardo, volontario del centro e dottorando a Oxford, ha scelto una poesia di Montale: “Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio/non già perché con quattr’occhi forse si vede di più”.

“Il riso è scondito!”. “Non ho niente da mettermi!”, si lamenta Abdullah. Intemperanze adolescenziali, come quelle dei coetanei italiani. Stessa indolenza, medesimi turbamenti, identica propensione a sconfinare nell’anarchia. Anche per questo alla Casa delle Culture le giornate sono scandite da turni e attività: pulizie, lezioni di italiano e inglese, laboratori, attività ludiche, computer. Dopo mangiato, un paio d’ore di relax tra pc, cellulare e divano; mentre d’inverno si frequenta la scuola pubblica con i coetanei italiani e si studia.

La sera scorre tra le strade del centro. È il momento della libertà e delle trasgressioni. Chi avvicina una ragazza con una scusa, chi insegue un sogno: andare a Milano, Amsterdam, Parigi. Abbattere i muri, cancellare le restrizioni. Diventare cittadini del mondo. Come i coetanei europei. ”

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MH
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