Ricordando Sabra e Shatila

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Beirut, in Libano, ed è stato scritto da Simone Scotta.

 

Beirut (NEV), 22 settembre 2019 – Sono passati 37 anni ed è difficile non pensare a come le cose non siano cambiate rispetto al 35 o 34esimo anno dal 1982. La condizione dei palestinesi è difficile, forse sarebbe corretto chiamarli libanesi con pochi, pochissimi diritti – a titolo esemplificativo, l’impossibilità di fare 39 diversi lavori anche se nati e cresciuti qui. 37, è solo un anno in più: la sostanza non cambia.

Due anni fa, una domenica mattina, con un paio di amici decidemmo di andare alla manifestazione di ricordo: erano passati 35 anni  – anniversario importante – dal massacro di Sabra e Shatila, ad opera delle milizie cristiane falangiste, sotto lo sguardo dell’esercito israeliano – consiglio a tutti questo pezzo del giornalista Robert Fisk, tradotto in italiano, per dare un’idea di cosa fu.

Oltre a non trovare la manifestazione – doveva essere a Bourj elBarajneh, uno dei campi palestinesi a sud della città, ma forse era a Shatila, chiediamo in giro, nessuno sa nulla –  dopo un caffè ci dirigiamo verso il campo di Shatila, un passante ci dice che il giorno precedente c’erano state quattro diverse manifestazioni di commemorazione. .

Mi dirigo poco dopo l’ingresso ufficiale nel campo, subito a destra, dietro all’ennesimo verduraio c’è un grande cancello arrugginito, marrone, brutto a dire il vero, senza troppi giri di parole: li si trova il memoriale del massacro, un grande banner con la traduzione in inglese, ci sono un paio di errori grammaticali, alcune corone di fiore posate poco oltre. Nulla più, un sentimento di lasciato così, come viene e andiamo avanti.

Sono divisi i palestinesi, sono depressi, occupati a “tirare avanti” in qualche modo, a sopravvivere in una società che non li vuole nonostante non conoscano altro paese che quello in cui sono nati e cresciuti. E’ la condizione di tanti siriani anche qui, dei bambini in primis, venuti con i genitori molto piccoli e ora bloccati in questo limbo che scende, nemmeno troppo piano, verso l’Inferno da sette-otto anni ormai, con nessuna prospettiva di ritorno o di miglioramento della propria vita. E stessa cosa si può dire dei genitori, non voluti o benvenuti qui in Libano e, per tanti di loro, forse nemmeno dal paese da cui provengono, la Siria, dove accanto alla distruzione causata dai bombardamenti, si aggiungono le preoccupazioni sul ruolo dell’Intelligence, molto presente e “attiva”, soprattutto nei confronti delle persone scappate dal conflitto.

C’è una sindrome che si chiama “Libanofobia” (Lebanophobia, in inglese), che si traduce come la claustrofobia, la mancanza di vie d’uscita –  a est e nord la Siria in guerra, a sud Israele con cui il Libano è ufficialmente in guerra dal 1948 – dal paese: difficile non pensare alla condizione dei palestinesi e, purtroppo, i siriani bloccati qui, da anni.

 

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