“Cerchiolismo, la rabbia dell’anima”

di Silvia Caslini, Arteterapeuta (ApiArt) –

Raggiungo la stanza dove Francesco (Piobbichi, ndr, operatore e disegnatore sociale di Mediterranean Hope) sta riposando dopo il suo incontro con i bambini delle classi quarte e quinte della scuola primaria. Ha l’aria stanca ma soddisfatta. So che il suo viaggio notturno per raggiungere Bergamo non è stato fra i migliori. “Amico, ti comunico che sei stato finalmente riconosciuto come padre del nascente movimento del CERCHIOLISMO!!”. Francesco distoglie lo sguardo dalla sua lettura, mi guarda sorridente e incredulo mi chiede di raccontargli cosa è accaduto. “I bambini hanno definito il tuo modo di disegnare CERCHIOLISMO, perché il tuo tratto è un insieme di cerchi vorticosi, degli scarabocchi che chiudono ed escludono allo stesso tempo tutto ciò che circondano”. Con la loro definizione, i bambini sono stati in grado di dare nome a quel gesto frenetico e convulso che contraddistingue il tratto del nostro disegnatore sociale. Francesco ne è entusiasta, e riconosce nel termine “cerchiolismo” la connotazione di quella “rabbia dell’anima” che pervade il suo essere nel momento stesso in cui incontra fogli e matite. Conosco il tratto di Francesco e il suo modo di disegnare. Negli ultimi anni ho avuto il privilegio, in occasione della realizzazione della mia tesi in Arteterapia, di osservare e studiare da vicino i suoi disegni e il suo lavoro. Ciò che è avvenuto a Cenate, un piccolo paese del bergamasco, è solo uno dei tanti episodi che potremmo raccontare circa le esperienze di incontro di Francesco nelle scuole di ogni ordine e grado di tutta Italia. Vi sono ad esempio molti contesti scolastici dove, dopo aver partecipato  all’incontro di presentazione di “Disegni dalla frontiera”, è nata la necessità di rielaborare il percorso fatto attraverso la realizzazione di opere ispirate e dedicate ai suoi racconti. Questo accade perché il processo creativo è soprattutto un “fare”, che stimola capacità latenti  attraverso materiali e tecniche.  Per questo diviene importante sottolineare ancora una volta, la peculiarità del progetto di “Disegni dalla frontiera”, per il quale: il processo artistico del singolo individuo è in grado di stimolare e provocare un processo artistico nell’altro fuori da sé. L’efferatezza delle immagini, in questo caso, non solo inducono lo spettatore a porsi domande da un punto di vista umano e sociale, bensì lo accompagnano verso un processo altro, un atteggiamento che potremmo definire di “cura” e di restituzione di un immagine personale in grado di sublimare il dolore grazie all’arte. Una cura – che consentirebbe all’individuo – ma anche al gruppo- di rappresentare l’inesprimibile e sbloccare i processi fisici e mentali. Dunque, ogni gesto dotato di senso, ogni produzione simbolica, potrebbero essere interpretati come atti volti a generare trasformazioni, individuali o collettive. Ed è così, che quell’immagine che è all’origine di ogni racconto, ci offre l’occasione di avvicinarci non solo alla fragilità del fatto sociale, ma diviene un’occasione educativa privilegiata per prenderci “cura” della nostra personale esperienza umana.

La relazione come esperienza della condizione umana chiede l’attivazione di una dimensione su cui ha riflettuto in modo non scontato Edith Stein: l’empatia. Esso è l’atto mediante il quale l’essere umano si costituisce attraverso l’esperienza dell’alterità. Che non è un semplice sentire insieme e tanto meno un processo di identificazione: è un atto di conoscenza che si dà quando un soggetto incontra un altro soggetto attraverso l’esperienza di avere originariamente presente l’esperienza dell’altro.  L’empatia rompe la continuità della mia esperienza, e la concentrazione su di me che sto percependo e conoscendo. Ed è forse qui, in questo frangente che può aprirsi una riflessione su quel dialogo empatico che l’esperienza di Francesco ci offre e a cui ci richiama continuamente. Questa relazione si concretizza nella nascita di significati che ad essa attribuiamo in quel possibile incontro fra artista – oggetto – spettatore. E’ qui che è possibile pensare al disegno come ad un  linguaggio in cerca di relazione. Un linguaggio in grado di far dialogare l’esperienza individuale con l’esperienza comune e collettiva generando la condivisione di un mondo simbolico.

La partecipazione a un’esperienza comune, la condivisione di un mondo anche simbolico da origine ad un arte che fonda la terapia, in quanto attraverso l’arte (le immagini) è possibile riconoscere il senso della propria appartenenza a un mondo comune e condivisibile. E’ nello spazio di questo nuovo dialogo tra individuo e collettività, che si genera lo strumento atto ad incontrare e a far incontrare, tipico della disciplina dell’arte terapia. Il dialogo di cui parliamo è simile a quello spazio immaginario capace di contenere in forma meno caotica alcuni elementi inconsci. Il processo artistico si tramuta dunque in processo relazionale dove ci si dispone a vivere il mondo come esperienza “degli atti con cui gli esseri umani si scambiano significati ed emozioni”. Perché non è semplice immediatezza il dialogo che ci viene richiesto: ci vuole anche capacità di uscire da sé e di ospitare.

L’auspicio è che il disegno come racconto diventi una traccia percorribile all’interno di possibili progetti, in cui singolo e comunità, operatori e migranti, giovani,studenti, cittadinanza sperimentino il processo creativo come risposta sociale di riconoscimento e di dialogo, di cura e autocura.

PS: Dalle ricerche effettuate con Francesco, in Kuwait abbiamo scoperto che esiste davvero un movimento artistico datato 1960 (contemporaneo del surrealismo) denominato CERCHIOLISMO. Il padre del movimento è tale Khalifa Qattan, artista kuwaitiano, primo ad aver organizzato un esposizione personale nel suo paese. Ad oggi il suo museo è molto riconosciuto per aver promosso dei workshop, voluti da Qattan, aperti ai bambini affinché si esprimano liberamente, senza l’interferenza dell’adulto.

 

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