Siria e diritto alla salute / 3. La guerra non è finita, serve mobilitazione

Terza e ultima parte dell’editoriale in tre puntate del medico Luciano Griso, responsabile di Medical Hope. Guerra, sanzioni, precarietà, insicurezza, coronavirus: le minacce che gravano sulla popolazione siriana richiedono un immediato intervento della Comunità internazionale e delle chiese

Roma (NEV), 15 luglio 2020 – La parte conclusiva dell’editoriale in tre puntate di Luciano Griso, medico responsabile di Medical Hope (che nell’ambito di Mediterranean Hope, programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia – FCEI -, fornisce assistenza sanitaria ai migranti) affronta il tema delle responsabilità internazionali e delle proposte. Sulla situazione siriana, resa complessa già dalla guerra, incombono anche le minacce del covid-19. Luciano Griso, dopo una “panoramica” sulle sanzioni che hanno colpito e colpiscono la popolazione siriana ormai da anni, ha commentato dati e temi dell’articolo pubblicato dall’autorevole rivista medica Lancet, che approfondisce la situazione socio-sanitaria in Siria e i rischi dell’embargo posto anche dall’Europa.

In questa parte, Griso sollecita un’ampia mobilitazione della Comunità internazionale e delle chiese, alla luce delle minacce, della precarietà e dell’insicurezza che da molti anni tengono la Siria e la popolazione, soprattutto le sue fasce più deboli e vulnerabili, sotto scacco. E sotto scacco sono anche i diritti umani, fra cui il diritto alla salute.


Su tale situazione, fin troppo rapidamente delineata, si inserisce la pandemia da Coronavirus. Se le azioni di contrasto intraprese hanno reso palmare la fragilità dei sistemi sanitari dei Paesi occidentali (in termini di scarsità di risorse umane, strutture adeguate, rapidità di risposta all’emergenza), a maggior ragione tali carenze si manifestano in maniera esplosiva nei Paesi del Medio Oriente, dove guerre e terrorismo si alimentano a vicenda da almeno vent’anni.

I dati disponibili sull’incidenza della pandemia in Siria sono frammentari. Il numero di infezioni e di morti sarebbe abbastanza basso, ma il sistema di sorveglianza è del tutto inadeguato. A Damasco vengono eseguiti non più di cento test al giorno, e solo alle persone sintomatiche. Nelle zone al di fuori del controllo del regime le possibilità di monitoraggio sono quasi assenti a causa dalla instabilità sociale/militare e quindi dalla inaccessibilità di molte regioni: più di due milioni di persone vivono nelle aree (Nord-occidentali, Idlib) controllate dalle milizie jihadiste/filo-turche, mentre Curdi ed Americani controllano ampie zone a Nord-Est. Campi ed attendamenti in tali zone non sono raggiungibili e sono a rischio di ampia diffusione del virus, specialmente nella temuta seconda ondata in autunno.

Nelle aree sotto il controllo del Regime il collasso economico e l’alto tasso di inflazione si traducono nel fatto che l’83% della popolazione vive in povertà (dati ONU), molti, e in particolare i bambini, si nutrono solo una volta al giorno, con una dieta inadeguata rispetto alle necessità, il 70% non ha accesso ad acqua sicura per la distruzione delle infrastrutture, è ormai la norma la ridotta disponibilità di beni di prima necessità, di disinfettanti, di materiale di protezione personale. Inoltre, il lockdown ha colpito duramente i più poveri ed i più vulnerabili, quelli occupati nella economia informale, nei piccoli negozi, nei lavori giornalieri.

In questo contesto gravemente compromesso dal punto di vista socio-economico per l’OMS non si tratta di sapere “se” il Covid-19 colpirà, ma “quando” colpirà. Se teniamo conto che la Siria dispone in tutto il Paese di 359 letti di terapia intensiva è facile realizzare quanto fragile sia la capacità di risposta alla pandemia.

Questa situazione richiederebbe un’ampia mobilitazione della Comunità Internazionale per portare sollievo ad una delle più sfortunate popolazioni dell’Eurasia. Basti pensare che una intera generazione di siriani, quella più giovane, non sa cosa sia la pace, vive nella precarietà e nell’insicurezza, senza istruzione e senza speranza, con danni psicologici che si stanno manifestando nel tempo e che sicuramente condizioneranno negativamente la possibilità di costruire, quando sarà il momento (ma ci sarà mai?), una società che consenta una convivenza “civile” fra le sue componenti.

Groviglio di fili fra le case nel quartiere di Sabra a Beirut, dove vivono molte famiglie siriane e irachene (foto: Simone Scotta/FCEI-MH)

È un richiamo, quello di Lancet, che interpella anche noi e le nostre Chiese, che ci richiede di opporci all’idea diffusa, nell’opinione pubblica e nei mezzi di informazione, che la guerra in Siria sia ormai alle sue battute finali e non rappresenti più quell’emergenza con cui ci siamo confrontati negli anni scorsi. Le cose non stanno così, come si evince dalle sommarie note precedenti. La guerra continua, la situazione è sempre più difficile; questo lo verifichiamo, come Mediterranean Hopenella nostra attività in Libano, nel nostro lavoro coi profughi siriani la cui disperazione e precarietà aumentano giorno dopo giorno per l’impossibilità sia di tornare in Siria – perché le case e i villaggi sono distrutti, perché non c’è lavoro a causa della catastrofica situazione economica, perché i giovani andrebbero incontro all’arresto in quanto considerati disertori – sia di rimanere in Libano, dove, per il crollo dell’economia e delle opportunità lavorative vengono visti come coloro che rubano il pane ed il lavoro ai libanesi (è il destino dei profughi, dovunque essi si trovino).

È a questo compito che chiamano gli estensori dell’appello pubblicato da Lancet. Non accontentiamoci di quello che stiamo già facendo, l’obiettivo è senz’altro più in là.

Luciano Griso

MH
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