Le frontiere mobili del Mediterraneo

Frontiere esterne e frontiere interne, barriere e procedure burocratiche che i migranti si portano addosso, ma non solo questo, anche nuove proposte e metodi di ricerca sul campo per analizzare e comprendere a fondo un fenomeno che cambia continuamente. Questo è il percorso che Fulvio Fassallo sta sviluppando da anni e che ha preso forma nel convegno sulle frontiere mobili tenutosi nei giorni scorsi a Palermo. Il suo è un lento e continuo lavoro di collegamento tra i movimenti che si occupano di accoglienza e ricercatori, un metodo di lavoro quotidiano che studia ed interviene spesso con successo rispetto ai flussi dei migranti che cercano di arrivare nel nostro paese per poi dirigersi in altre nazioni. Vassallo ha ricordato introducendo i lavori di come cambiano le frontiere, attraverso procedure, linguaggi, dispositivi giuridici e burocratici che si modificano in continuazione a seconda delle diverse fasi che investono i paesi del mediterraneo. Ha ricostruito come storicamente le vicende del controllo delle frontiere seguono la politica, dagli accordi di collaborazione con Gheffadi di Berlusconi fino a quelli di Renzi con l’Egitto, ha ricordato quelli della Spagna con il Marocco, delineando un quadro più complessivo nel quale oltre al tema del controllo delle migrazioni rientrano accordi economici e armamenti. Siamo di fronte ad un movimento migratorio che potrebbe essere governato ha detto ancora, ma l’incapacità europea di avere una politica comune al riguardo impedisce che questo avvenga. L’Europa ha detto ancora Vassallo ha accolto 180 mila profughi siriani, mentre la Turchia da sola 600 mila, ed il Libano quasi un milione. Alessandro Dal lago ha ricostruito il rapporto tra migrazioni contemporanee e la guerra. “Nel 2005 – ha detto Dal Lago – assistevamo ad un’ epoca in cui i conflitti armati erano già diffusi, ma non erano ancora emersi come tema principale, il tema migratorio veniva collegato ai grandi fenomeni sociali ed economici, ma il tema della guerra non era ancora emerso come oggi”. Dal Lago ha ricordato che “ in media ogni due anni i paesi occidentali sono coinvolti in un conflitto armato pervasivo, spesso i militari italiani sono coinvolti in questi conflitti senza che l’opinione pubblica però risulti coinvolta. Non sappiamo – ha continuato – quale sia il nemico principale, da alcuni mesi è l’Isis e di conseguenza altri nemici sono diventati di secondo ordine, oggi Assad è alleato degli USA, lo stesso vale per l’Iran in quanto combattono l’Isis. Questo nonostante Israele li identifica come nemici.” Dal Lago nel suo intervento ricostruisce tutti i passaggi di queste guerre partendo dal 1990 quando si determinò un’alleanza mondiale contro Hussein fino alle ultime guerre in Libia e in Siria. In questa ricostruzione ritira la sua definizione di polizia globale, per introdurre invece il concetto di “decisionalismo occasionale”, un principio d’intervento armato deciso indipendentemente da visioni strategiche ed ideologiche da parte dei paesi occidentali. Un intervento questo al quale in ogni momento qualunque popolazione potrebbe essere esposta ed essere sottoposta a bomba bardamenti. Questo per Dal Lago è un elelmento centrale nelle nuove migrazioni, la loro continua mobilità è il prodotte delle strategie militari. “Fino a pochi anni fa – dice ancora Dal Lago – questa connessione era impossibile, tutto era legato alla dimensione meccanicistica ed economica che considerano l’immigrazione come il risultato di fattori di spinta ed attrazione, come se tutto il resto che succede nel mondo non conta. Oggi invece è la faglia dei conflitti la cornice principale di significato nella quale analizzare il fenomeno delle le migrazioni.” Per Dal lago in questo quadro una delle difficoltà principali è data dall’elemento di percezione di questi fenomeni che si hanno al di qua o al di la della faglia, “i cittadini europei – dice il professore genovese prima di concludere – non si rendono conto della brutalità e di quello che accade al sud del mondo. C’è un’ignoranza di fondo come dimostrano gli studi della percezione del fenomeno delle migrazioni di eurobarometro, che in Italia assume elementi giganteschi.” Proprio partendo dalla questione della guerra nella sponda sud del Mediterraneo si è sviluppato l’intervento di Anas El Gonati – Sadeq Institute di Tripoli che ha analizzato le varie rotte dei migranti partendo proprio dalla questione libica, raccontando di come le recenti elezioni stanno determinando una nuova fase molto conflittuale nel paese. “Negli utlimi mesi in Libia – racconta il giovane ricercatore l – per la prima volta è caduto il velo che nascondeva la situazione in Libia, ed oggi ci troviamo di fronte ad una serie di contraddizioni. El Gonati ha ricostruito in termini storici ed economici la vicenda libica partendo dall’insiediamento di Gheddafi fino ai giorni nostri, descrivendo come i processi politici avviati in quel periodo hanno mutato antropologicamente il paese, il suo apparato statale e comunicativo contribuendo all’attuale fase di caos che si è determinata e che perdura dopo la guerra, un vuoto questo che è stato riempito dalle tribù. “Ci troviamo di fronte ad una fase di riassestamento che durerà per anni con forti elementi di conflittualità nel quale le tribù dei tuareg e dei tabu operano traendo profitto dai processi migratori. Queste tribù – racconta ancora El Gonati – hanno una dimensione di orientamento transnazionale, mentre le altre hanno un carattere più nazionale. E’ importante riflettere sull’aspetto transnazionale di queste due tribù perchè quello che loro percepiscono è di non avere un diritto di cittadinanza -repressi durante epoca di Gheddafi e diffidenti rispetto al nuovo processo – questi gruppi nomadi hanno problemi sui passaporti, e spesso l’ufficio centrale non li riconosce come cittadini libici. Per questo non hanno nessun tipo di lealtà rispetto allo stato libico. Questo determina una confusione che porta oggi i governi nazionali a non prendere posizione nel conflitto libico. Oggi la Libia – conclude – ha superato il limite di non ritorno, in Libia abbiamo un armamento tale che potrebbe far continuare la guerra fino al 2020, qualcuno alla fine vincerà, ma oggi stiamo tutti perdendo.” A ricostruire invece i passaggi della catena del traffico umano che contraddistringue oggi la Libia è stata Nancy Porsia. La giovane giornalista che si trova ora al confine tra Tunisia e Libia ha dato un quadro generale rispetto all’industria del traffico umano in Libia e di come questa industria si adatta al contesto socio politico e militare in continuo cambiamento in Libia. Nancy Porsia individua due fasi, quella precedente e quella post Gheddafi. Nella prima fase c’era una regia centralizzata, tutto veniva monitorato dall’alto, dai confini sud del deserto fino al nord. C’erano uomini di affari che agivano in questo spazio a seconda della volontà del regime che rifletteva i negoziati con l’Europa. “Con la fine del regime questa regia si è dissolta – racconta Nancy Porsia – oggi in Libia questo ha una gestione a network, una catena fatta di anelli non sempre interconnessi. Chi traffica a sud non ha legame con i trafficanti operanti al nord. A sud operano i Tabu ed i Tuareg, che fanno entrare gli africani della fascia sub sariana nelle città libiche. In questi punti di accesso sono entrati anche molti siriani, non esistendo questa regia centralizzata, nel 2011 abbiamo assistito ad un numero di partenze molto basso, 63 mila arrivi, 2014, anno in cui è in corso una guerra civile con focolai che si accendono e si spendono , stiamo assistendo molte più partenze dalla libia 150 mila.” La ricostruzione della giornalista è molto interessante quando descrive il motivo per cui nel 2014 la Libia è diventata veicolo per i trafficanti, “ in molti hanno puntato il dito contro Mare Nostrum come elemento attrattivo, esso però non è l’unico fattore. E’ vero che con il minimo dello sforzo i trafficanti garantivano il passaggio in Europa preoccupandosi di gestire una breve tratta di mare. Ma l’elemento principale invece è considerare l’anarchia in Libia, che diventa oppurtunità d’ingresso e di passaggio. I migranti e richiedenti asilo possono entrare da sud e da est, come da Ovest . IL percorso dei migranti in Libia può durare alcune settimane o alcuni anni. Si può finire in prigione, si può finire torturati. Sostanzialmente però il traffico non è strutturato a livello nazionale, a sud Tuareg e Tabu, ad ovest i Zintani che controllano il passaggio di Zintan fino a Zwara, che oggi è uno dei porti principali delle partenze. Questi gruppi – continua ancora Nancy – pur essendo tra loro in guerra permettono il traffico di esseri umani, e questo ci dice che i trafficanti non sono esposti al rischio mentre i migranti e richiedenti asilo sono dei clienti su cui lucrare.” La Porsia ricostruisce una differenza principale in chi gestisce il traffico degli esseri umani, “a Sud è controllato da Tabu e Tuareg con la convivenza da parte delle guardie di frontiera che sono corrotte. Ad est ci sono le milizie fondamentaliste, ed è un’area sempre meno battuta dai migranti. Ad Ovest invece da Misurata fino al confine con la Tunisia ci sono uomini di affari che agiscono sotto varie sigle, nazionalisti, fondamentalisti, con appartenenze politiche slegate che controllano porzioni di territorio. Oltre al fattore religioso fondamentalista nell’est, c’è poi il fattore rotta, ad est partono le rotte per la Grecia da Ovest partono per l’Europa. La rotta da Sud è più facile, acque più basse e meno pericolose.” Dato per assunto che non esiste una regia centrale ma con gruppi che operano tra di loro, la ricercatrice racconta come i trafficanti della costa non sono in contatto con quelli del confine sud, e descrive come operano concretamente nell’organizzazione del viaggio in mare operando con la figura del mediatore. Un uomo della stessa nazionalità del gruppo che si vuol far partire. Nancy racconta ancora di come lo stato di anarchia in Libia sta permettendo a trafficanti non professionisti di improvvisarsi professionisti promettendo viaggi low cost. “La fine di una organizzazione centralizzata permette l’ingresso di outsiders che non sono del mestiere e che fanno saltare regole e criteri della professione. Tiene ancora il mercato tra tripoli fino in Tunisia dove operano i trafficanti prosessionisti, in quel tratto i ragazzini che s’improvvisano trafficanti vengono spesso neutralizzati. Al primo gommone che affonda su questo tratto di costa si crea un cordone che respinge i non professionisti. I vecchi trafficanti quindi continuano a stare sul mercato. Solo in un momento storico – dice Nancy prima di concludere il suo intervento – la Libia ha vissuto una campagna di repressione di trafficanti, nel 2008 quanto di fu il trattato di amicizia italo libico. Solo a Zwara 400 arresti su indotto del traffico umano, mentre durante la rivoluzione emissari di Gheddafi pagavano per convincerli a rimettere in mare le barche per mandare i migranti in Italia”. Il Prof. Paolo Cuttitta dell’ Università di Amsterdam , ha centrato il suo intervento ricordando la vicenda della CapAnamur, una nave che soccorse in mare i richiedenti asilo, e che apri un caso internazionale tra Italia ed altre nazioni del Mediterraneo. Da allora ricorda Cuttitta molte cose sono cambiate, ma non tutte. Per Cuttitta Mare Nostrum è un’operazione militare che potrebbe essere letta come elemento di rottura rispetto al passato. E’ una operazione umanitaria di intellicence, che ha come obbiettivo però il rafforzamento dei paesi del nord africa per impedire le parteze. Alfano ad esempio da i numeri dei salvataggi e degli arresti. Soffermandosi sul processo di umanitarizzazione Cuttitta ricostruisce i passaggi che costruiscono un processo di inferiorizzazione per chi viene salvato. Il processo di umanitarizzazione prevede attori non statali e istituti di ricerca che lavorano con esperti in nome finiscono per suggerire una gestione tecnica delle frontiere. Depoliticizzando una questione che invece è politica. Tutto questo per Cuttitta contribuisce a decodificare un fenomeno che è in realtà politico. “Questo processo di umanitarizzazione – ed è questa la domanda finale che rivolge a tutti – può essere motivo di soddisfazione o va respinto in quanto affermazione di un regime iniquo delle frontiere?” La Prof. Alessandra Sciurba – dell’Università di Palermo ha concentrato la sua relazione sulla nuova sfida dell’asilo, nello spazio mediterraneo. Una nuova sfida aperta nel 2011 con le primavere arabe. Questa nuova sfida per la Sciurba si apre mettendo al centro un istituto antichissimo come quello dell’asilo politico che parte dall’antico Egitto ed arriva fino ai nostri giorni con il concetto dell’inviolabilità della persona che incarna un diritti soggettivo. Per la giovane ricercatrice palermitana “i diritti umani se presi sul serio possono diventare un nuovo orizzonte di lotta culturale politico e sociale. Uilizzandoli anche contro la strumentalizzazione umanitaria – per la Sciurba – il diritto di asilo è una delle sfide principali per dare nuova linfa per i movimenti dal basso che si stanno opponendo la gestione delle frontiere. Chi aveva scritto la convenzione di Ginevra non immaginava che la formalizzazione del diritto di asilo fosse agibile da milioni di persone. Oggi le istituzioni cercano di svuotare questo diritto con sfibranti procedere burocratiche o respingimenti. L’Europa non ha una assunzione di responsabilità rispetto ad un diritto per un sistema comune per il diritto di asilo ma considera questo un fardello sul quale si litiga tra stati come si vede per la questione del mutuo riconosciemnto del diritto di asilo.” Per la Sciurba quindi il “Diritto di asilo è in contrasto con la logica politica del governo delle migrazioni che hanno si un’ impostazioone economicista ma che al tempo stesso incorporano tale diritto. Oggi ci troviamo davanti ad un contesto mutato, da un lato ci sono nuovi conflitti asimmetrici che determinano migrazioni, e secondo elemento la crisi sta determinando un decremento dei processi migratori in particolar modo nei paesi del sud che loro stessi stanno diventando paesi di emigrazione. Oggi migliaia di giovani spagnoli aprono imprese in Marocco – continua ancora – e non sono respinti a differenza dei giovani marocchini. Frontieri mobili ed asimmetriche. Per la prima volta c’è un decremento delle nascite dei migranti per effetto della crisi.” Collegandosi poi alle riflessioni di Cuttitta la Sciurba descrve come “ la Trasformazione dei richiedenti di asilo in vittime e naufraghi si riflette nel sistema di accoglieza che nasce come emergenza e poi diventa di normale. Ha concentrato invece il suo intervento sulla questione delle categorie tra il “noi” ed il “loro” la Professoressa Clelia Bartoli: “normalmente la ridefinizione del confine avviene attraverso le guerre. E possibile – si è chiesta – ripensare queste categorie in modo non belligerante avendo una visione più utile rispetto al chi rientra nel Noi?” Prima di ogni lotta di classe, ricordando Bourdieu ha affermato che : “c’è una lotta di classificazione. Per questo è necessario costruire una rete transnazionale che comunichi, questo rende possibile una libertà di circolazione che ridefinisce il noi attraverso un processo di libertà. Ridifenire il noi e ridefinire gli altri è fondamentale ed è un processo di libertà. Don Milani diceva “ se voi avete il potere il mondo di dividere tra italiani e stranieri, io reclamo il diritto di dividere il mondo in privilegiati e oppressi, gli ultimi sono la mia patria.” Per Clelia _Bartoli “ Tanto le politiche di frontiera che di accoglienza ridefiniscono il noi e il loro. Questo schema ha come assunto di base la separazione e questo ha dei costi enormi, non solo per la categoria del “Loro” ma anche nella categoria del “Noi”. Da questo punto di vista è inutile – ha continuato – avere l’approccio del “noi e del loro” ma quello del “siamo sulla stessa barca” pur tenendo conto delle differenze tra chi rema e chi sta al timone, un’idea questa che impone una strategia comune per andare avanti.” La Bartoli immagina i diritti come qualcosa di sinergico, come “qualcosa che può essere condiviso e non come concessione, privandomi del mio diritto rispetto a quello che concedo ad un altro”. Nel suo intervento inoltre la docente si è concentrata sui costi delle politiche del confine. “ La persona che parte, rischia la vita, esaurisce le proprie risorse e quella della rete amicale parentale, rischia violenza e torture. Il viaggio poi deteriora la persone, che arrivano deboli alla meta, questa quantità di denaro inoltre viene regalata alle mafie internazionali. Da parte dei paesi europei invece c’è un enorme investimento per rafforzare le frontiere, per salvare in mare, per l’accoglienza. Una persona che arriva con un aereo arriverebbe qui con un proprio capitale che potrebbe essere investito o speso come risorsa nel paese. Creando piccole attività , questa enorme quantità di denaro e di persone che spendiamo per l’accoglienza potrebbe essere non speso. La persona che viene accolta degrada spesso anche il territorio che accoglie. Perchè il modello di accoglienza è quello che inferiorizza della segregazione e del concentramento. Queste sono le caratteristiche di questo modello , i centri concentrano i migranti lontano dai territori, questo non è ottimale per integrare con il territorio perchè la segregazione fisica aumenta la percezione dell’altro come soggetto lontano da se, come qualcuno di cui aver paura. Invece che dare Empowerment il processo che si costruisce è opposto, è di indebolimento attraverso l’accoglienza. Per quale ragione in un centro come Mineo – si chiede la Bartoli – i migranti non possono cucinare, e quindi fare spesa e distribuire i soldi ai commercianti locali invece che alla ditta che ha vinto appalto? L’inferiorizzazione è tale che il migrante viene considerato come una persona che non è in grado di farsi la minestra.” Altro elemento critico per la Bartoli è che i centri di accoglienza “stanno diventando delle cabine elettorali. I soldi per l’accoglienza stanno alimentando la clientela che rafforza i politici che ci governeranno male. Il sistema accoglienza se gestito in questo modo ha un effetto perverso nel nostro paese. Accoglienza ha come obbiettivo autonomia delle persone, questo è un obbiettivo mancato. Non è semplicemente un sistema omicida ma è anche suicida perchè sta rinforzando gli aspetti deteriori presenti su questa parte del mediterraneo. C’è una ulteriore questione, la schiavitù antica era legalizzata ma il proprietario degli schiavi mantenerli era un costo. Adesso questo costo non è più nella voce di bilancio dello schiavista ma nella voce dello stato. I braccianti sfruttanti nelle campagne sono mantenuti dallo stato per farli sfruttare dalle mafie agricole locali.” Che fare allora si chiede la docente palermitana? “ Ci sono una serie di esempi in cui è possibile pensare – dice rispondendo alla sua stessa domanda – magari rifiutando il tema dell’accoglienza ripensando il noi e gli altri. Pensare progetti comuni e non di assistrenza, ma progetti comuni che ci mettano insieme nel pensare il futuro. Il rifugio diffuso di Torino determina il fatto che le famiglie accolgano i migranti con la possibilità di interagire con la comunità locale. Dobbiamo lavorare su idee economiche che riprendono il concetto del siamo tutti sulla stessa barca. Per Emilio Santoro, professore all’Università di Firenze, molte delle cose che stiamo discutendo non hanno una soluzione nel nostro apparato concettuale . “Non esistono -dice – immigrazioni forzate, la migrazione forzata si chiama deportazione, per il resto c’è una componente soggettiva che ci porta a decidere cosa fare. La mia scelta è chiaro ed evidente che è condizionata da condizioni tremende ma è pur sempre una scelta soggettiva.” L’altro concetto sul quale ha incentrato il suo intervento e il concetto di Stato Nazionale. “La Libia ad esempio non è uno stato nazionale, uno stato che non riusciamo a costruire come in Iraq. I nostri stati sono stati costruiti in Europa su migliaia di morti, come successo con gli ugonotti in Francia. A noi ci fa comodo avere stati nazionali e confini in Africa, sul finire del secolo scorso abbiamo fatto una nuova operazione neo – coloiniale in medio oriente perchè ci faceva comodo. Cosa significa oggi ricostruire i confini in Libia? – si chiede – siamo noi che creiamo i confini in Africa, dove la divisione era tribale e se ne fregavano dei confini. Siamo noi ad invocarli per loro. In 30 anni il Congo ha cambiato più volte nomi e confini. Noi dobbiamo cominciare a dire che questi problemi prescindono dalla dimensione dello stato nazionale. Questo è vero anche per noi continua – che fino ad ora abbiamo attribuito i diritti come stato nazionale. E qui le cose arrivano al pettine. Abbiamo infatti due istituti,quello del diritto di asilo e il ricongiungimento familiare che aprono una contraddizione. Ci troviamo di fronte ad un diritto soggettivo, che gli stati devono assolvere ma non vogliono farlo. Noi di questa idea – come occidente ndr – non abbiamo mai discusso, e abbiamo provato in tutti i modi a svuotarli. Oggi abbiamo l’enorme questione dell’asilo e questo problema ci si è posto in maniera drammatica, è il fatto che gli arrivi sono in gran parte rifugiati e richiedenti asilo ci costringe a dire, io quel diritto non lo voglio riconoscere. Dublino è il tentativo estremo di mediare, tentativo folle, tra questa dicotomia. Il Diritto di asilo come diritto di avere una inclusione è una cosa diversa da quello che stiamo facendo oggi, e qui arriva un altro dramma. Noi non siamo in grado di pensarli per i nostri figli che sono disoccupati. Noi ragioniamo dei percorsi d’inclusione anni 70, in c’era lavoro fisso – come facciamo ad includere con il jobs act ? Si chiede retoricamente – in quel modello le associazioni alle quali stiamo tagliando come finanziamenti svolgevano un ruolo di mediazione. Abbiamo un problema serio per ridefinire le nostre categorie. I discorsi ipocriti come quello di costruire lo stato nazionale in Libia fanno ridere e piangere. Quando abbiamo pensato ai diritti abbiamo dato ad ognuno il proprio posto,essi funzionavano per strabilizzare la società, quando l’uso del diritto invece scardina questo ordine noi diciamo che il diritto non esiste più. I diritti sono dalla rivoluzione in poi, la stabilizzazione per la politica economica. I diritti però si prestano anche per essere usati come diritti di lotta. La Corte Europea dei Diritti dell’uomo ad esempio ha capovolto questa idea, e la concezione dei diritti, che non spettano più all’appartenenza nazionale, ma in base all’appartenenza di chi li viola. Tu puoi ricorrere alla corte se uno dei 47 stati europei li viola in qualsiasi parte del mondo, ed è un capovolgimento teorico enorme. Dobbiamo cominciare quindi a svincolare i diritti dallo stato nazionale questo è in fin dei conti il percorso su cui riflettere.

MH
MH
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