Di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi Lampedusa, Agrigento (NEV), 14 gennaio 2015 – Prendiamo parola o almeno proviamo a riordinare le nostre idee, alcuni giorni dopo gli eventi di Parigi e ci sforziamo di capire quali saranno i possibili effetti sulla frontiera dentro la quale lavoriamo, dopo che il cuore dell’Europa è stato colpito dall’ignobile azione terrorista. Lampedusa, isola della salvezza, è anche isola messa al fronte dagli Stati e il filo spinato arrugginito che circonda i vecchi bunker fatti saltare in aria dagli inglesi dopo la seconda guerra mondiale è metafora di un futuro al quale si potrebbe andare incontro. Come lo è il centro di accoglienza che a seconda dello scenario politico muta forma, prende fuoco, si apre o si chiude con una storia nella quale si sono oltraggiati i corpi e la dignità di essere umani. Il marchio che la politica assegna alle persone che attraversano la nostra frontiera è un tatuaggio che ci si porta dietro per sempre. Soccorso o intercettato, naufrago o clandestino, profugo o integralista sono parole chiave per narrazioni differenti, ognuna delle quali può essere utilizzata per aprire o chiudere i confini, per respingere o salvare nel mare. Racconti, costruiti sul palcoscenico della frontiera e spesso utilizzati per rafforzare politiche di paura, che ingabbiano queste persone in caselle. In questi giorni in molti hanno banalmente collegato il terrorismo al fenomeno dell’immigrazione, stabilendo un nesso che invece andrebbe indagato con più attenzione a partire dallo studio dei flussi. Primo, perché un terrorista che deve venire a fare un attentato non rischia la vita in mare ma ha certamente canali più sicuri per arrivare. Secondo, perché queste persone non sono solo musulmane ma molte sono anche di fede cristiana; e infine, perché molti islamici, come nel caso dei siriani o degli afgani, più che venire a portare terrore in Europa scappano dal terrore che vivono nel loro paese, un terrore che spesso noi stessi occidentali abbiamo contribuito a creare. Vedere così tanti profughi di guerra che oggi si spostano per il mondo, come non se ne vedevano dalla seconda guerra mondiale, ci induce a ritenere che ci sia in corso un conflitto globale non semplice da decifrare e da collocare nella schematizzazione mediatica. Se mettiamo su Google la parola Ucraina o Afghanistan, oppure Siria, Iraq, Egitto, Libia o Nigeria scopriremmo che ogni giorno ci sono morti, bombardamenti e attentati che sconvolgono questi paesi. Si potrebbe quindi individuare una cornice inquietante di qualcosa di molto più complesso del semplice scontro di civiltà del quale tutti parlano. Ma non è solo sulla frontiera che andrebbe volto lo sguardo per comprendere i fenomeni di questi mesi, la globalizzazione infatti costruisce paradossi, come quello che vede l’Europa terreno di diffusione di nuovi terroristi, cresciuti non nelle scuole dove si impara a memoria il Corano ma nelle nostre scuole pubbliche, nei quartieri delle nostre città. Europei infatti, di nazionalità francese, erano i tre assassini che hanno portato morte nelle strade di Parigi, come europei sono molti di quelli che combattono in Iraq e in Siria sotto le bandiere nere dell’internazionale dell’Isis. Tutti questi elementi costituiscono un mosaico complesso attraverso il quale cercare di comprendere gli eventi senza tralasciarne le molteplici cause e le possibili conseguenze. Questo dovrebbe essere un metodo costante con il quale affrontare i cambiamenti della società che stiamo costruendo, riflettendo con consapevolezza sulle responsabilità che come persone abbiamo e vogliamo assumerci, per esempio affermare che la solidarietà deve essere più forte della paura e dell’odio. In questi giorni abbiamo sentito più volte agitare parole importanti, abbiamo visto milioni di francesi scendere in piazza rivendicando i diritti e le libertà, i valori costituenti della “civiltà europea” che sono anche diventati valori universali dopo la seconda guerra mondiale. Questi valori però non possono essere solo di alcuni e non di altri, non possono fermarsi alle nostre frontiere come è accaduto in questi anni. Questa a noi sembra un’ipocrisia sulla quale dovremmo riflettere insieme. Con quale coraggio innalziamo al cielo le luci luminose dei diritti dell’uomo, se poi le nostre frontiere sono chiuse con filo spinato per chi li rivendica ed i nostri mari sono pieni di cadaveri di innocenti?