di Paolo Naso* Nel 2014 oltre 150.000 persone hanno rischiato la loro vita per tentare di raggiungere l’Italia via mare, salpando su barconi fradici pilotati da trafficanti senza scrupoli. E’ una cifra importante e consistente che evidenzia una crescente spinta alla pressione migratoria che merita qualche considerazione. Fonte: Ministero dell’Interno La chiave sta nelle provenienze: limitando l’analisi all’anno da poco concluso, emerge che i paesi da cui partono le quote più rilevanti di migranti sono l’Eritrea (23,7), la Siria (22,1), il Mali (6,2), la Nigeria il 4,7, il Gambia (4,3), la Somalia (3,1), la Palestina (2,8), l’Egitto (2,6). Non sono i paesi più poveri del mondo e, soprattutto, coloro che riescono a racimolare alcune migliaia di dollari per la traversata, non sono le prime vittime della fame e dell’indigenza che ormai da decenni affligge l’Africa subsahariana. Ad innescare il fattore di espulsione di migliaia di persone molto spesso è quello che tecnicamente si definisce lo state failure, il “fallimento” o il “collasso” delle entità statali che non sono più in grado di garantire i servizi minimi essenziali: l’energia, la sicurezza, l’istruzione, i trasporti, la sanità. In paesi come la Somalia il “governo” è garantito dal precario equilibrio tra bande; in Eritrea da un apparato militare ossessivo che impone lunghi anni di servizio armato; in Siria è in atto una rovinosa guerra civile; il Mali e la Nigeria sono attraversate dal fondamentalismo violento dell’islamismo radicale, e ripetuti fatti di cronaca attestano lo stato di assoluta insicurezza in cui vivono milioni di persone. In nessuno di questi paesi – tanto meno in Libia da dove parte la maggioranza dei barconi – vi sono le condizioni politiche e materiali perché queste persone possano essere accolte come rifugiati e quindi l’unica via d’uscita resta l’immigrazione irregolare via Mediterraneo. Con tutte le conseguenze che questa comporta. Che siamo di fronte a flussi migratori diversi da quelli tradizionali è attestato anche dal dato delle donne e, soprattutto, dei minori che da soli si avventurano in una vera e propria odissea per raggiungere i paesi degli imbarchi, raccogliere (o difendere) i soldi necessari a pagare gli scafisti e infine arrivare sulle coste siciliane. Limitandoci ad analizzare gli sbarchi dalla Libia, quelli assolutamente prevalenti (oltre 700 nel 2014, secondo il Ministero dell’Interno), emerge che tra i migranti via Mediterraneo, il 10,9 sono donne e il 13,6 minori. A settembre dello scorso anno, si calcolava che i minori non accompagnati – problema nel problema, e di primaria rilevanza sociale – fossero, oltre 12.000. E’ quindi realistico affermare che questa specifica categoria di persone eccezionalmente vulnerabili ammonta al 10% del totale dei migranti via Mediterraneo arrivati nel 2014. Bambini “rifugiati” che non è difficile incontrare in un qualsiasi centro d’accoglienza ma il cui destino rimane del tutto incerto. Non sono “immigrati” nel senso classico del termine che abbiano imparato a conoscere in decenni di flussi determinati dalla combinazione di fattori di espulsione (povertà, desiderio di migliorare la propria vita) e di attrazione (lavoro, opportunità di formazione, libertà) nel quadro di un “progetto” che ciascuno costruiva negli anni. Le grandi “catene migratorie” degli italiani negli Usa o in Canada, dei turchi in Germania o dei marocchini in Olanda hanno funzionato secondo questo schema ormai classico. Per molti di loro sarà anche difficile dimostrare di essere “rifugiati” perché la loro storia e quella della loro fuga non sempre si inquadra nelle categorie rigide del diritto d’asilo. Né immigrati né rifugiati, semmai immigrati e rifugiati insieme. La dinamica delle migrazioni 2.0 determinate dal “fallimento degli stati” di cui abbiamo detto è del tutto diversa: non ha questa razionalità ne questa prevedibilità; soprattutto genera una figura a metà tra il migrante e il rifugiato che il diritti nazionale e quello internazionale ancora faticano a riconoscere e interpretare. Ne sia prova che non esiste un vero meccanismo di protezione che consenta a questa particolare categoria di migranti di godere di una corridoio di protezione che gli consenta di raggiungere mete sicure. Il rischio di una traversata in mare affidando la propria vita a dei criminali sempre meglio organizzati sembra essere l’iter burocratico per avanzare una domanda di richiesta d’asilo. E’ questo il nodo di massima criticità delle migrazioni di oggi, quelle dei barconi e degli sbarchi di migliaia di persone subito etichettate come “clandestini”. Questi, “clandestini” non lo sono proprio perché di loro conosciamo il nome e la provenienza, il porto di partenza e quello d’arrivo. Ma questa è la volgarità dell’uso politico delle tragedie del mondo per conquistare qualche voto in più istillando paure e pregiudizi. Il problema è che il sistema degli ingressi delle politiche europee e di quella italiana non sa come gestire questa novità: contenuta nelle cifre ma rilevante sul piano umanitario e sociale. Da qui la proposta che Mediterranean Hope e altre associazioni avanzano con insistenza in Italia e in Europa: l’apertura di un corridoio umanitario per la protezione di soggetti vulnerabili che provengono da aree a rischio. In altre parole si tratterebbe di garantire la possibilità di avanzare una richiesta d’asilo o di protezione prima di imbarcarsi sulle navi dei trafficanti, ottenendo così – quando ve ne siano le condizioni – un visto d’ingresso per un paese europeo. Questa proposta sarebbe ovviamente più forte se fosse adottata, anche in via sperimentale e con dei tetti, da altri paesi europei. Le chiese e le ONG che all’estero sostengono Mediterranean Hope potrebbero quindi rilanciare questa proposta nel dibattito politico nazionale. Quanto all’Italia con l’operazione Mare Nostrum ha salvato oltre centomila persone: un risultato che ci fa onore in Europa. Ma proprio per questo il nostro paese potrebbe farsi capofila di un’azione per allargare qualche maglia interpretativa dei regolamenti europei in materia di accoglienza e asilo. Non è l’apertura delle frontiere, non sarà l’invasione dei barbari, non è la resa alla babele multiculturale. E’ una piccola misura di ragionevolezza e umanità nell’anno in cui si fa propaganda su 150.000 migranti che arrivano sui barconi e si ignora il calo del numero degli immigrati che risiedono in Italia. Anche sotto i colpi della crisi, dal 2013 cresce il numero degli stranieri che, dopo anni di permanenza, lasciano il nostro paese attratti da un altro progetto migratorio. Qualcuno applaude. Se avesse senno e intelligenza dei processi economici capirebbe che è il segnale, un altro, di un mesto declino italiano. *Docente di scienza politica e coordinatore del master in Religioni e Mediazione culturale all’Università Sapienza di Roma