Lampedusa: un confine in continua trasformazione

Marta Bernardini e Francesco Piobbichi – NEV

Otto mesi, questo è il tempo che è trascorso da quando siamo arrivati a Lampedusa con il progetto Mediterranean Hope. Otto mesi non sono tanti per capire e cogliere i significati profondi di questo scoglio nel cuore del Mediterraneo, ma sono senza dubbio un periodo significativo che rende più solido il nostro racconto (1).

Ci siamo chiesti da dove incominciare e su cosa soffermarci per riuscire a dare voce a questo luogo, a quanti ci vivono e quanti vi approdano. Crediamo che Lampedusa debba essere raccontata partendo da un aspetto per noi centrale: la sua perenne mutazione come terra di confine. Un confine che respinge o che accoglie, ma sempre un confine che marca le distanze tra “noi” e “loro”, tra ricchezza e povertà. Raccontare Lampedusa dopo questi otto mesi significa anche, e soprattutto, raccontare come sia cambiato il meccanismo e lo spettacolo della frontiera in questi anni, e di come il confine si sposti e si “delocalizzi” nel mare. Se nel 2011, a seguito delle Primavere arabe, l’isola è diventata un confine in “crisi” dove l’emergenza è stata “messa in scena” – come ben descrive Paolo Cuttitta nel suo libro (2) – ora Lampedusa muta nuovamente. Sarebbe impossibile raccontare questi mesi a Lampedusa senza considerare come l’operazione di “polizia umanitaria” Mare Nostrum abbia profondamente cambiato la vita dell’isola, “resa tranquilla” dalle navi militari che arrestano gli “scafisti” da un lato e “soccorrono” i profughi e richiedenti asilo dall’altro. Nel 2011 si sarebbe parlato di un’isola “invasa” dall’emergenza degli “sbarchi” dei “clandestini”. Se è vero che Lampedusa è in perenne mutazione, c’è tuttavia una data che si è sedimentata nella storia e nell’identità dell’isola, quella del 3 ottobre 2013, quando davanti alle sue coste perirono centinaia di persone.

Questo evento è ormai impresso nella coscienza non solo dei lampedusani, ma anche di quel resto del paese ancora sensibile alla tragedia in atto nel Mediterraneo. Il 3 ottobre ha smosso qualcosa nella cittadinanza di Lampedusa, una popolazione che vivendo in un luogo di transito e trasformazione fatica a sviluppare un’identità collettiva. Per i lampedusani questa è diventata una data da difendere, da sottrarre alla spettacolarizzazione mediatica, per affermarla da un lato come giornata del ricordo e, dall’altro, del silenzio, quasi fosse un monito perché tali tragedie non si ripetano così come le indesiderate passerelle mediatiche dei politici del momento. Questo aspetto si è reso evidente durante le commemorazioni di quest’anno, caratterizzate anche da alcune contestazioni, sempre inserite e utilizzate da quella radicata arte e cultura della spettacolarizzazione. In questo contesto l’elemento costante rimane uno: le persone povere che hanno avuto la fortuna di varcare il confine superando mari e deserti, sia che vengano recluse sia che vengano accolte, subiscono lo stesso svuotamento di un loro diritto soggettivo, la possibilità cioè di presentare domanda di asilo in paesi sicuri, come prescrive la Carta dei diritti dell’uomo. E intanto l’Italia vive uno dei paradossi della politica dell’accoglienza ai tempi di Mare Nostrum: accoglie sì, ma allo stesso tempo inferiorizza i rifugiati e richiedenti asilo. Del resto non si potrebbe spiegare altrimenti il coincidere della fine di Mare Nostrum con l’inizio di Mos Maiorum, operazione di polizia con la quale per giorni i migranti salvati dal mare sono stati poi identificati forzatamente. Lavorare a Lampedusa significa quindi mantenere uno sguardo privilegiato su questi fenomeni, senza mai perdere di vista i bisogni sociali degli abitanti di un’isola di frontiera. L’isola rimane un luogo simbolico, un palcoscenico, e proprio per questo i processi di accoglienza e inferiorizzazione dell’altro si possono leggere in anticipo. Nella nostra esperienza di questi mesi abbiamo maturato l’idea che non sono solo le carceri, i CIE (centri di identificazione ed espulsione), i CARA (centri di accoglienza per richiedenti asilo), etc. i luoghi in cui si misura la civiltà di un paese, ma anche i suoi confini, il trattamento che subiscono le persone che li superano e il tipo di retoriche che i media sviluppano. Non è un caso che per mesi il centro di accoglienza dell’isola sia rimasto ufficialmente chiuso e con lavori in corso pur ospitando in via ”eccezionale” alcuni migranti, e non è un caso che spesso si creino dinamiche poco chiare tra gli attori istituzionali dell’accoglienza quando i migranti approdano. Tutto ciò è strettamente legato a come il ruolo del confine sia sta ridisegnando. Un confine che non è semplicemente un luogo di arrivo per i civili, ma anche luogo in cui, come sta avvenendo in questi ultimi mesi a Lampedusa, si installano nuovi strumenti militari generando proteste e perplessità da parte di una popolazione preoccupata per la presenza di altri radar e dei loro effetti sulla salute. Isola militarizzata dell’accoglienza, ma anche isola del turismo, confine mobile che a seconda della fase politica e dei racconti dei media si espande a sud fino alla Libia o ovest fino a Malta, per poi ritirarsi a ridosso delle sue coste. Lampedusa è un confine in movimento come lo sono le navi di Mare Nostrum che in questi mesi hanno salvato moltissime persone, posizionandosi a seconda dei casi vicino a Lampedusa o vicino alle coste libiche. In questo momento siamo in una fase di transizione tra Mare Nostrum e Triton, operazione dell’agenzia europea Frontex che dovrebbe sostituire la prima, ma di fatto dispiega un numero minore di forze e principalmente orientate al monitoraggio del mare più che ai salvataggi.

È ancora presto per comprendere pienamente gli effetti di questo cambiamento, ma è molto probabilmente che Lampedusa muterà di nuovo forma, a breve potrebbe tronare ad essere luogo di approdo e di identificazione, dove qualcuno sarà accolto e qualcun altro respinto. Tutto ciò senza che sia ancora chiaro che tipo di centro di accoglienza è presente sull’isola – anche se i suoi doppi muri qualcosa ci suggeriscono – e quanto le persone si fermeranno o che tipo di trattamento riceveranno. Ci ha colpito molto il racconto di Dagmawi Yimer, profugo eritreo tornato a Lampedusa da regista, su come sia stato per lui approdare a piedi scalzi sull’isola e ritornarci oggi in modo diverso. Un ritorno che avviene dopo un percorso durato anni, che ci parla del tentativo di ritrovare la dignità che si perde quando si approda scalzi e inermi in una terra che non si conosce. Ma è proprio in questo ritorno che forse possiamo trovare il filo di un discorso comune per comprendere fino in fondo la logica del confine. Perché, verrebbe da chiedersi, le decine di migliaia di persone che hanno attraversato quest’isola non vi hanno poi lasciato memoria? Perché sono in pochissimi quelli ad essere tornati in un luogo che ha rappresentato per molti di loro la salvezza? Forse non si ritorna perché Lampedusa rappresenta ancora un luogo da dimenticare, il primo approccio con una lunga serie di procedure e dispositivi che li ha certamente salvati, ma che allo stesso tempo ha contribuito a renderli invisibili, cittadini di “serie b”, sotto ricatto da leggi che invece di proteggerli li trasforma in soggetti deboli ed vulnerabili. In questo ultimi mesi però, c’è una novità paradossale per un’Europa che aveva costruito la strategia di accoglienza del fenomeno migratorio rispetto alla dimensione del lavoro. Questa novità è rappresentata dalla mutazione della composizione dei flussi, non più prevalentemente di migranti economici ma di rifugiati e richiedenti asilo, uomini e donne portatori di un diritto soggettivo universale riconosciuto nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo in nome del quale oggi si bussa alle porte d’Europa. Oggi, sui barconi, viaggiano persone costrette a lasciare il proprio paese per fuggire da guerre e persecuzioni, come furono costretti a farlo gli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Questa considerazione dovrebbe far riflettere un’Europa che sembra difendere certi diritti solo all’interno dei propri confini, rimanendo invece indifferente a ciò che continua ad avvenire nel Mar Mediterraneo. Non stupisce allora che Lampedusa, con il suo perenne mutamento, attraversamento di persone, configurazione di confine mobile, fatichi ancora a trovare una sua identità, così come forse l’Europa dovrebbe ricominciare a interrogarsi sulla sua. 1) Articolo ripreso da Confronti, 12/2014, pp. VIII-IX. 2) Paolo Cuttitta, 2012, Lo spettacolo del confine, Mimesis edizioni. *Operatori dell’Osservatorio sulle migrazioni a Lampedusa per Mediterranean Hope

MH
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