Condividiamo l’accoglienza

Lampedusa, Agrigento (NEV), 11 febbraio 2015 – La lettera che segue, scritta a caldo dopo l’ultima tragedia del mare, il 10 febbraio, insieme ai preti di Lampedusa don Mimmo e don Giorgio, è molto di più di un semplice appello. Essa rappresenta, almeno secondo noi, l’apertura di una riflessione sul modello di accoglienza nel nostro paese che per troppo tempo è stato separato dalla dimensione partecipativa di base.

Oggetto di procedure burocratiche spesso incomprensibili, chiuso nei reticolati di luoghi separati dal resto della società e cresciuto nello spazio dell’emergenza, il modello di accoglienza italiano mostra tutti i suoi limiti. Oltre a questo, stando a Lampedusa in tutti questi mesi, abbiamo capito che questo approccio determina nell’opinione pubblica una separazione tra il “noi” e “loro”, una distinzione che è alla base di molti pregiudizi nel nostro paese. Così, chi oggi passa la frontiera di Lampedusa, chi si salva dal mare e raggiunge l’Europa, rischia di portarsi dentro il confine per tutta la vita.

E mentre scriviamo, arrivano ancora notizie di morti nel Mediterraneo. Persone a cui non si riuscirà a dare un nome, così come non si riesce a dare una risposta all’impellente richiesta di una vita possibile.

di Don Mimmo e Don Giorgio, preti di Lampedusa; Marta Bernardini e Francesco Piobbichi, Mediterranean Hope

Lampedusa (AG),10 febbraio 2015 – Lampedusa è espropriata della possibilità di accogliere quanti e quante arrivano dal mare in cerca di una speranza. Chi vive su questo scoglio in mezzo al mare sa che è un luogo di approdo e di salvezza, ma troppo spesso i lampedusani vengono messi da parte rispetto a quanto accade sulla loro isola. Tranne qualche anno fa, quando ancora l’accoglienza la potevano fare quanti si adoperavano per offrire rifugio, un aiuto, un pasto caldo, oggi questo sembra impossibile. I lampedusani non possono offrire aiuto sulla loro terra, subiscono le scelte fatte da altri, che sono lontani da qui, che non vivono su questo scoglio, non sanno cosa significa accogliere dal mare.

Nel 2011 l’accoglienza è stata fatta lo stesso, al meglio che si poteva, ma era una condizione di forzatura, di esasperazione, nella quale si è giocato sulla vita di quanti sfuggivano dal loro paese e quanti in questo ci vivevano. È stata imposta una convivenza in perenne clima emergenziale, ben lontana da un’accoglienza degna e rispettosa come sicuramente qualcuno avrebbe voluto offrire. E poi a seguire sempre più rare le occasioni di interazione, un centro dai muri spessi e dalle reti invalicabili. Nessuna possibilità di fare un sorriso, di parlare, di vedere con i propri occhi e rendersi disponibili verso quanti hanno fatto viaggi della speranza e avrebbero tutto il diritto che qualcuno gli accogliesse con sincerità e spontaneità, non solo tramite procedure militari o statali. Numerosi cittadini hanno più volte espresso la volontà di essere presenti e protagonisti agli arrivi, soprattutto offrendo opportunità di incontro e familiarizzazione con i bambini e le persone più vulnerabili. Questo tipo di relazione è inesistente, se non per il personale lampedusano che lavora al centro di accoglienza e si spende con energia nel suo lavoro. Ma come è possibile sapere che centinaia di persone sono arrivate su quest’isola e che non si può entrare in contatto con nessuno di loro? Loro chiusi dentro come criminali e tu lasciato fuori come un intruso. Sulla tua isola. Nel Porto Salvo.

E poi arriva la materialità dei corpi, l’incombente realtà della morte, il 3 ottobre. Un’altra volta le vite di chi scappa delle più atroci situazioni si interseca con quella dei lampedusani, coinvolti, chiamati, interpellati a fare e pensare qualcosa. Sfilata di autorità, che continuano a decidere lontano da qui, mentre qui qualcuno vive e qualcuno approda.

Oggi finisce Mare Nostrum, e la risposta è un nome vuoto. I soccorsi non bastano più ma le persone continuano ad arrivare. Mentre noi oggi ci alziamo, “travagghiamo”, mangiamo, guardiamo il telegiornale, andiamo in chiesa, facciamo la spesa, beviamo il caffè, prendiamo i figli a scuola, qui, sulla stessa isola dove abitiamo e dove abbiamo costruito le nostre vite, arrivano 29 corpi. Senza vita, ma con un nome, che però forse non verrà mai scoperto. E speriamo che i prossimi ad arrivare siano vivi. Ma ancora di più spereremmo che questo ci importi, ci interessi sapere cosa accade in questi pochi chilometri di isola. Non vogliamo sapere le notizie solo dalla televisione, per noi questo è reale, avviene ora. Vogliamo che ci sia un tessuto sociale che si rende conto di quello che accade e che se qualcuno vuole rendersi disponibile possa farlo, possa preoccuparsi per chi arriva, possa offrire del tè e un sorriso, possa vedere se ci sono bambini e bambine a cui dare qualcosa, oltre la meccanica accoglienza che offre lo stato. Vorremmo che se chiedessimo “come stanno? Serve qualcosa?”, si possa ricevere una risposta non affrettata e timorosa.

Non ci interessa la retorica o il buonismo, non ci interessano informazioni o fotografie, ci interessa l’umanità, la dignità, la vita e la speranza.

Benvenuti a voi. Andate in pace a voi.

MH
MH
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