Mediterranean Hope intervista Don Mimmo Zambito, parroco di Lampedusa

Siamo nuovamente con Don Mimmo Zambito della parrocchia di Lampedusa. Stiamo seguendo i fatti di questi giorni e Lampedusa torna ad essere un luogo di arrivi e purtroppo anche di morti, come è avvenuto qualche settimana fa. Qual’è la reazione della cittadinanza e secondo lei cosa è cambiato da dopo la tragedia del 3 ottobre 2013?
Penso che ci sia il rischio che ci abituiamo, e questa è la peggior cosa che possa capitare, non solo a quelli che vivono distanti da Lampedusa ma anche per noi che viviamo a Lampedusa.
Quindi il fatto che non ci sia un effettivo, reale protocollo di accordo e di intesa tra i diversi soggetti che vivono su quest’isola, che operano su quest’isola e che ad ogni modo vogliono provare a dare aiuto alle persone che migrano dall’Africa o dal Medio Oriente, ecco c’è il rischio di una caduta di senso, di percezione, del dramma che queste persone attraversano e finanche della stessa vicenda che riguarda la loro morte. Avverto questo rischio, spero di essere smentito e che non accadano più queste vicende, come auspicio e come impegno dell’Italia e dell’Europa, ma che nello stesso tempo anche tutte le realtà, i lampedusani, insieme proviamo ancora una volta a ridefinire una modalità sempre più degna di accoglienza di questi amici.

Proprio settimana scorsa, dopo la tragedia dei 29 migranti senza vita portati a Lampedusa, è stato organizzato un corteo, che si è snodato tra le vie della città fino ad arrivare al Centro di Primo Soccorso e Accoglienza. Com’è nata questa idea e qual era il suo significato?
E’ nata perché tra uomini e donne di buona volontà, la rappresentante della Federazione delle Chiese Evangeliche, la comunità, ci si è fermati per dire come rendersi presenti. E’ una vicenda quella della migrazione che vede Lampedusa in primo impatto, in prima fila, ma nello stesso tempo Lampedusa è consapevole dell’esiguità della propria condizione geografica e della propria qualità di risposta. Una piccola realtà di 20 km2, 6000 persone, che vive questa esperienza e anche questo rimbombo mediatico, questa intensità di decisioni che sono altrove. E quindi in qualità di persone che vivono in questo luogo e anche in ragione della fede, della ricerca della giustizia, della pace, provano a darsi, a trovarsi, a chiedere un interpretazione, un valore, un significato a quel che accade alle vite di queste persone, a non abituarsi dicevo, a voler richiamare le autorità, a voler tacere a volte, a voler gridare altre volte. La cosa più semplice che ci è sembrata potessimo offrire a noi, ai migranti che erano morti, alle persone che erano sopravvissute, alle persone che hanno una qualche forma di responsabilità, è stata una marcia silenziosa, come nel desiderio di voler abbracciare le persone che erano state salvate, erano riuscite ad arrivare nell’isola e nello stesso tempo compiere un atto di pietà umana e cristiana per quello che poteva essere il gesto semplice di portare un fiore e di portarlo al Centro di Primo Soccorso e Accoglienza. Morte e vita che si intrecciano e che ci richiamano a saper vivere tutti i giorni, quotidianamente, in una profondità di relazione con tutti coloro che ci accolgono e tutti coloro che noi accogliamo.

In questi giorni sono molte le persone che sono al centro di accoglienza, più del numero per il quale il centro è organizzato. Cosa sta avvenendo, qual è la risposta della popolazione e c’è la possibilità di dare una mano ed entrare in relazione con quanti sono arrivati?
Il centro è ufficialmente circondato da reti di recinzione, e quindi ufficialmente dovrebbe essere solo il Ministero degli Interni a occuparsene, tramite la società a cui affida questo vero e proprio appalto, che sono le Misericordie di Italia, in particolare la Misericordia di Isola Capo Rizzuto. Ma in realtà quando il centro supera nell’accoglienza la capienza prevista, in questo caso siamo arrivati a quadruplicare come già altre volte è avvenuto nel passato, i migranti escono dalle reti metalliche che sono a delimitare un perimetro. Immediatamente in quel momento scatta una dinamica di sussidiarietà, di solidarietà, di accoglienza, di percezione che queste persone non sono numeri, non sono categorie – migranti, sbarchi, approdi -, non sono gente e storie senza volto, si vedono le donne con i loro bambini, si vedono volti di ragazzi e di giovani, si vedono le sofferenze sui corpi, le offese che sono state perpetrate a queste persone, si vede la loro pena, si vede anche spesso il loro spirito religioso, la loro ricerca la loro testimonianza di fede nel tempio, nella preghiera, nel raccoglimento e quindi la comunità in senso globale, in tutte le sue espressioni, prova a lenire, per quello che è possibile, questa sofferenza. Quindi tutti d’accordo, senza nessuna esclusione ne preferenza, senza più distinzione, uomini e donne di buone volontà, gli esponenti delle chiese, la comunità parrocchiale, coloro che cercano la giustizia e la pace, le suore, fianco a fianco si prova a mettere a frutto questa esperienza di accoglienza vicendevole tra di noi e anche ad accogliere la testimonianza di vita che queste persone ci offrono. Quindi tutto quello che normalmente si può realizzare in una comunità che si chiami umana, una comunità che si chiami cristiana, che faccia riferimento a Gesù, viene offerto, come i bisogni più essenziali dal vestito, alle schede telefoniche, speriamo al più presto di attrezzarci per aiutarli per la toilette personale, alcune modalità che leniscano l’amarezza, la sofferenza, il dolore, a volte la tragedia di questi fratelli e queste sorelle.

In questi giorni Lampedusa è tornata ad essere un palcoscenico mediatico e politico e tante sono le domande circa la paura che Lampedusa avrebbe di un’invasione terroristica. Secondo lei è davvero una paura collettiva, percepita dalla cittadinanza, o potrebbero essere anche altre le preoccupazioni dei lampedusani?
No, non mi sembra ad oggi che ci sia una particolare paura, un terrore. Invece colgo con l’effetto mediatico della comunicazione, che a momenti esalta Lampedusa e a momenti la abbassa, misura la distanza dell’orrore e delle tragedie con la distanza in miglia marine da Lampedusa, è una modalità di comunicazione dalla quale non ci possiamo estraniare, abbiamo necessità di stare in questo sistema, d’altra parte ne dobbiamo sempre più conoscere i meccanismi perversi che autogenerano, autoproducono il sistema della comunicazione. Non ritengo che attualmente ci siano da parte della popolazione particolari preoccupazioni per la vicenda, anche questa vicenda come quella delle migrazioni, la vicenda della relazione tra persone di diversa religione nel contesto europeo, è molto più complessa della prossimità di un probabile stato islamico nel territorio libico, quindi è solo un modo di coagulare una modalità di comunicazione su una piccola realtà che oggettivamente non riesce ad avere una voce complementare, contrastante alla vulgata che circola nei mezzi di comunicazione di massa. Anche per quanto riguarda la comunicazione, l’isola è una piccola realtà che non riesce a produrre, per l’esiguità delle persone che vi abitiamo, come qualità di pensiero, di concetto, di espressione e per l’esiguità dei mezzi conseguenti di comunicazione, ecco non riesce, non ha voce in capitolo a riguardo di questa paura che si tende a volte a fomentare, che a volte si può coagulare e poi a volte raccogliersi simbolicamente e significativamente su Lampedusa. Lampedusa esaltata, Lampedusa impaurita, Lampedusa sommersa e Lampedusa invasa dagli estremisti, ecco mi pare a volte molto facile il sistema della comunicazione, anche molto perverso purtroppo e a rischio di falsità.

MH
MH
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