di Osvaldo Costantini Alla “Case delle Culture” di Scicli, la cultura dell’assistenza non sembra trovare dimora: qui il concetto di accoglienza, mosso da qualsivoglia concezione della carità, da sempre detersivo delle coscienze e nemico giurato di ogni discorso basato sulla giustizia sociale, lascia il posto allo scambio, alla sintesi delle diversità e ad una pratica quotidiana che contiene in fieri i germi per una nuova concezione dell’inserimento. Gli ospiti del centro non vengono considerati mere vittime da aiutare, né, come (ahimè) la cronaca riporta a proposito di molti centri di accoglienza, come soggetti deboli su cui attivare l’ennesima forma di business, piuttosto soggetti, privati di ogni opportunità da una Storia che non esime da responsabilità la nostra Europa, ai quali restituire una possibilità di agire. Essi sono inseriti in un piccolo condominio, dove, dopo qualche giorno utile all’apprendimento del funzionamento della struttura, la gestione è affidata loro quasi totalmente. Gli ospiti cucinano, puliscono, rassettano gli ambienti, aiutati, più che coordinati, dagli operatori dell’area educativa-domestica, Mauro ed Erica. La loro esperienza al contatto con i ragazzi è densa di relazioni, a volte contrasti, che tuttavia loro definiscono come un processo di scambio; nelle parole di Mauro: «dopo poco tempo di collaborazione, ciò che si instaura è un bellissimo rapporto di fiducia e stima […]e la gioia di quello che provo è confermata dal fatto che tutti i nostri amici, transitati da noi come ospiti, periodicamente ci chiamano al telefono, o tramite facebook e what’s app […] penso che, seppure in così poco tempo riusciamo a lasciare un qualcosa di buono in loro, e loro in noi: nel piccolo abbiamo creato e raggiunto qualcosa di grande». I minori che entrano nel centro di Scicli, godono della possibilità di essere nel centro della cittadina barocca, non esclusi spazialmente dalla popolazione locale con cui hanno continui contatti, da un lato perché vengono immediatamente inseriti nelle classi scolastiche locali con i loro coetanei, dall’altro, perché il centro non si configura solo come una struttura dell’accoglienza, ma anche come un luogo aperto alla cittadinanza locale, dove si tengono iniziative culturali, proiezioni di film e documentari, così come feste, cene “etniche” e spettacoli teatrali. Nonostante la giovane età del centro, nato da pochi mesi, l’organizzazione interna è strutturata in relazione a questo orientamento di idee: l’equipe è variegata, gli operatori vengono tutti da percorsi completamente diversi che vanno dall’esperienza lavorativa nei mercati ortofrutticoli locali, alla pedagogista, passando per la formazione islamica (uno degli operatori è l’imam della moschea di Ragusa) e l’esperienza di ricerca antropologica interna all’accademia. La loro descrizione della Casa delle Culture è diversa, tuttavia, tutti concordano sul descrivere la struttura come un luogo di scambio che, seppure un work in progress, dispiega tutto il potenziale di arricchimento contenuto dai rapporti di scambio reciproco. Come sottolinea la pedagogista del gruppo: «Sono tanti i riconoscimenti e gli apprezzamenti che ci giungono ogni giorno e di questo ne siamo molto fieri nonostante vi siano ancora alcune correzioni da apportare, come è normale che sia in un progetto in cui le variabili in gioco sono spesso non prevedibili ma superabili con gli opportuni aggiustamenti in itinere». Difficile immaginare, per un visitatore esterno, che, nel cuore di quel macchinario che produce feste ed incontri di vario tipo (dalle donne delle chiese evangeliche ai No-triv), si produce anche del lavoro burocratico: ci si occupa della compilazione delle richieste di asilo, delle ricostruzioni delle storie di vita e delle vicende migratorie degli ospiti, cercando di ricollocarli, eventualmente, presso altri parenti in Europa, contribuendo alla spese per il primo inserimento. In questo intreccio di eventi, competenze e discussioni si svolge il lavoro del centro: un operatore passa dall’insegnamento dell’italiano ai colloqui con i ragazzi, o a fare da traduttore nei setting terapeutici approntati dallo psicologo a disposizione di chi ne avesse bisogno: le lingue coperte dagli operatori sono quattro – l’inglese, il francese, l’arabo e il tigrino eritreo – alle quali si aggiungono spesso altre lingue grazie a traduttori appositamente fatti venire da altre strutture presenti sul territorio. Tra una attività e l’altra le giornate passano, andando a formare quella che secondo Piero, l’addetto alla comunicazione e all’organizzazione, è una immagine fatta di tanti punti diversi armonizzati e uniti da una unica idea, non pietistica, dell’accoglienza.