Non serve concentrare. Occorre fluidificare

Di Paolo Naso

Ad oggi non sappiamo se il cosiddetto “processo di Karthoum” caldeggiato dal Governo Renzi durante il semestre di presidenza italiana della UE avrà un futuro o se è stata una delle tante “ipotesi di lavoro” messe in campo per coinvolgere altri paesi dell’Unione nella gestione dei flussi migratori via Mediterraneo.

Qualunque sia l’interpretazione è un fatto che il “processo” è avvolto da un’aurea di incertezza e indeterminazione che suscita più di qualche  preoccupazione. E quindi ha fatto bene Stefano Liberti a denunciare sull’Internazionale del 18 marzo quello che appare come “l’ultimo inganno per i migranti”. Secondo l’ACNUR, tra gennaio e marzo le migrazioni irregolari via Mediterraneo hanno già ucciso oltre 400 migranti che cercavano di raggiungere le coste europee, assai di più delle 15 vittime registrate nello stesso arco di tempo un anno fa. Siamo quindi di fronte a un processo che, crescendo e accelerandosi, impone risposte rapide e efficaci. Ma la fretta e l’urgenza non possono andare a scapito dei diritti umani e della logica della protezione umanitaria. Creare grandi concentrazioni di migranti e richiedenti asilo, di per sé, non risolve alcun problema ma semmai ne pone di nuovi: la concentrazione in alcuni paesi già al collasso di masse di migranti, la gestione di grandi campi profughi, la legittimazione di regimi e governi non affidabili sul piano degli standard democratici e di tutela del diritto umanitario. La soluzione non è concentrare ma fluidificare i flussi migratori, aprendo “canali umanitari” che consentano alle persone bisognose di protezione di raggiungere in sicurezza un paese europeo. E’ proprio su questo piano l’Italia potrebbe avviare una “best practice” da proporre in Europa, utilizzando una maglia della normativa in materia di visti. Il regolamento di Shengen ammette infatti che nella propria autonomia un paese dell’Unione possa rilasciare dei visti d’ingresso per motivi umanitari: così come sembra orientata a fare la Spagna utilizzando le enclave di Ceuta e Melilla in Marocco, quindi, anche l’Italia potrebbe aprire un “canale umanitario”. Tecnicamente si tratterebbe di autorizzare alcune ambasciate a rilasciare tali visti, consentendo così l’ arrivo in Italia in condizioni di sicurezza ed evitando di alimentare lo human trafficking gestito da cosche e dai gruppi paramilitari più o meno collusi con il fondamentalismo islamico. Questa “buona pratica” potrebbe essere sperimentata fissando un “tetto” e gestita d’intesa con ACNUR, OIM e associazioni di volontariato disposte ad aprire dei “presidi umanitari” di orientamento e monitoraggio che si relazionino con le ambasciate per la raccolta delle richieste. Giunta in Italia o in altro paese dell’Unione, la persona “sotto protezione” potrà decidere come sviluppare il suo progetto migratorio. Sostenere l’urgenza di avviare una buona pratica non significa rinunciare a un nuovo diritto delle migrazioni e dell’asilo che impone di mettere  in agenda svariate altre questioni: il superamento degli accordi di Dublino che minano ogni solidarietà europea in materia di accoglienza, una politica di sicurezza per i migranti nei paesi nordafricani, il contrasto alle migrazioni irregolari e al loro prezzo umano, una nuova interpretazione del concetto di “rifugiato”. Ma ogni lungo pellegrinaggio inizia con un primo passo. Nessuno ha la bacchetta magica e questa proposta non risolve di certo la questione delle migrazioni globali che riguardano il Mediterraneo. Ma a fronte di tante parole dette in libertà e con qualche eccesso di razzismo e di velleitarismo costituisce una misura sostenibile e generalizzabile. In ogni caso sarebbe un test sulla credibilità e dell’autorevolezza morale dell’Europa in materia di diritti umani.

MH
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