Si fa presto a dire zighinì

Marta Bernardini e Francesco Piobbichi – NEV

Lampedusa, Agrigento, 29 aprile 2015 – Si fa presto a dire “zighinì”, uno dei piatti tipici di Eritrea, Somalia ed Etiopia, eppure a Lampedusa capita anche questo. Capita di cucinare dello zighinì per una trentina di giovani eritrei che da giorni sono approdati sull’isola. Capita di farlo per dei motivi ben precisi: per farli sentire meno soli, per lenire la paura e lo spavento che rimangono nei ricordi e sulla pelle, per cercare di superare il terrore che hanno dovuto affrontare.

Ma non solo. Prepariamo lo zighinì perché questi ragazzi, tutti minorenni, da qualche giorno protestano per non dare le loro impronte digitali alle autorità, temendo di non poter andare più via da Lampedusa e dall’Italia. Parlando con loro, la sensazione che abbiamo avuto è quella di una grandissima paura per il futuro che si apre davanti a loro, nonostante tutto il dolore e la bruttura che si lasciano alle spalle. Una paura così grande da temere di essere identificati e rimanere incastrati in un sistema di accoglienza che mostra sempre di più i suoi limiti, facendoci comprendere quanto sia difficile il ruolo della mediazione e dell’accoglienza nella logica della frontiera. Da ieri mattina, martedì 28 aprile, una trentina di questi giovani è uscita senza autorizzazione dal centro di primo soccorso e accoglienza per sistemarsi sulle scale della chiesa, nella piazza principale di Lampedusa. E lì sono restati fino alla sera, mangiando qualche bustina di cracker e biscotti. Alcuni di loro si sono fatti regalare della colla e se la sono messa sulle dita per evitare di dover dare le impronte, raccontandoci come, per molti, l’Italia sia solo uno dei tanti passaggi per arrivare ad altre mete, in altri luoghi per ricongiungersi con amici e partenti. Questa mattina molti di loro hanno finalmente lasciato l’isola accompagnati con la nave di linea, mentre rimangono al centro un’altra decina di persone. Questi ragazzi, con la loro piccola e pacifica protesta, una cosa ce l’hanno insegnata chiaramente. Con semplicità ci hanno fatto capire come gli accordi di Dublino siano un’ulteriore barriera per chi ha fatto un lungo viaggio, per chi sa che una volta sopravvissuti anche al mare il peggio è passato, ma che le insidie e i pericoli non sono finiti. I molti governanti che si esercitano da mesi nello sport dei “buchi nell’acqua” rispetto al tema delle migrazioni, dovrebbero venire qui, a Lampedusa, e fare quello che facciamo noi insieme ai lampedusani: vedere gli sguardi di queste persone, la loro pelle segnata, la loro stanchezza ma anche la loro forza di volontà, e poi decidere. Dovrebbero venire quando approdano stremati al molo Favaloro, quando si arrangiano per dormire in un centro con un numero limitato di posti, dovrebbero cucinare lo zighinì per ognuno di questi ragazzi per capire cosa sia per loro ritrovarsi in questa situazione. Ma dovrebbero anche unirsi a tutti i lampedusani e le lampedusane che offrono il loro tempo e la loro spontanea solidarietà distribuendo vestiti, cibo, giochi; ai commercianti che non si scompongono se le persone acquistano frutta nei loro negozi o si siedono ai tavolini dei bar. Dovrebbero invece rispondere loro a tutti quei giornalisti che fanno domande superficiali e invadenti a una popolazione che vorrebbe vivere di normalità, dovrebbero vedere con i loro occhi “l’invasione”, non di migranti ma dei media pronti a spettacolarizzare ciò che non esiste. E mentre scriviamo queste righe alcuni minori sono ancora sull’isola, incerti su quale sia il loro futuro e all’interno di un meccanismo di accoglienza che dovrebbe tutelarli e invece li lascia in sospeso. Vorremmo quindi condividere alcune riflessioni che un gruppo di attivisti e professionisti, tra cui l’avvocata specializzata in diritti umani e immigrazione Alessandra Ballerini, stanno maturando in queste ore denunciando con un esposto la condizione che questi ragazzi vivono nei centri di Lampedusa e Pozzallo: “quanto avviene ancora oggi nei centri di prima accoglienza e soccorso, quando il trattenimento amministrativo si protrae oltre le 96 ore, magari allo scopo di ottenere il prelievo delle impronte digitali, corrisponde ad una eclatante violazione dell’art. 13 della Costituzione italiana e delle norme che regolano in Italia il trattenimento amministrativo. […] Il Centro di Soccorso e Prima Accoglienza deve, come vuole il nome stesso, essere destinato a prestare soccorso alle persone sbarcate dopo operazioni di soccorso, per poi procedere ad un loro veloce trasferimento verso altri centri a seconda delle esigenze e della posizione giuridica dei singoli individui. […] Si ricorda come il diritto internazionale dei diritti umani tuteli l’inviolabilità della libertà personale; queste situazioni, invece, contraddicono il principio in esame, sostanziandosi in un regime di detenzione amministrativa attuata al di fuori di qualsiasi presupposto giuridico”. Nel 2014 il trattamento che è stato riservato nello specifico per i minori non accompagnati è stato ai limiti della vergogna. Non vogliamo che continui così.

MH
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