Ai confini della povertà

Marta Bernardini e Francesco Piobbichi – NEV

Lampedusa, Agrigento, 10 giugno 2015 – L’ultima nave della Guardia di Finanza che martedì sera ha portato il suo carico di umanità nell’isola di Lampedusa, era piena di donne e bambini. Soprattutto siriane, ma anche del Sudan e Somalia. Prima, altre imbarcazioni, tra cui come sempre quelle della Guardia Costiera, avevano portato a terra sane e salve alcune centinaia di persone partite dalla Libia, ghanesi, gambiani, bangladesi, nigeriani.

Noi li vediamo per poco, abbiamo giusto il tempo di salutarli con qualche parola, un gesto di vittoria, un sorriso, un “welcome in Italy”, e poi tutti ci scompaiono davanti inghiottiti dalla frontiera e dai suoi dispositivi. Vengono portati al Centro di primo soccorso e accoglienza, resteranno chiusi per qualche giorno in un luogo sovraffollato e pieno di criticità e poi saranno nuovamente trasferiti in Italia. In altri centri, alcuni che fanno bene il loro lavoro e altri che speculano sulla pelle di chi arriva. Nell’epoca di Mafia Capitale, c’è un elemento sul quale è necessario riflettere a partire da quest’isola, uno dei primi luoghi in cui i migranti approdano. A cosa serve tutto questo? È davvero indispensabile avere un sistema di accoglienza così militarizzato, incapace di uscire dalla logica dell’emergenza ma in grado di trasformare le persone in oggetti privi di voce e di storia? Siamo davanti a un dispositivo che si autoalimenta di paure e retoriche, che si rafforza con immagini statiche di numeri, mascherine, tute contro le più spaventose infezioni. E questo sistema penetra nei corpi di chi arriva e nella mente di chi guarda, costruendo un immaginario lontano dalla realtà.

Chi arriva è una persona che ha dietro di sé una storia e davanti un sogno e un progetto di vita. Chi arriva non è un numero da dividere tra sani e “scabbiati”, buoni e presunti scafisti. Chi arriva, al di là delle scempiaggini che scrivono i giornali sui terroristi dell’Isis, non è un soggetto socialmente pericoloso. Chi arriva è come me che scrivo e come te che leggi, è come tuo figlio, come tua sorella o il tuo più caro amico. Chi arriva è un essere umano.

Che le persone che qui approdano, dopo lunghi ed estenuanti viaggi, abbiano bisogno di cure è verissimo, che abbiano bisogno di essere protette anche. Ma per fare questo è necessario che vengano separate dal resto della società? La prima cosa che la frontiera toglie a chi arriva, in cambio della salvezza, è la voce. La seconda sono la dignità e la libertà di movimento. La voce, perché tutti parlano di “loro” senza che nessuno gli dia la possibilità di parlare; la dignità, perché questo sistema di accoglienza produce inferiorizzazione e separazione tra “noi” e “loro”, tra chi può scegliere e chi no; la libertà di movimento, perché Dublino e le sue regole li costringono a rimanere in Italia. Esempio evidente è parlare, discutere, decidere della vita di queste persone come fossero un peso da sostenere, dei pacchi da distribuire.

Nei giorni scorsi ci ha colpito la notizia che in Libia il governo di Tripoli ha iniziato ad arrestare i migranti, perché sappiamo che molto probabilmente sono finiti nei lager che l’Europa sta finanziando per cercare di nascondere questa umanità ai nostri occhi. Allo stesso modo ci ha colpito vedere la molteplicità di nazionalità presenti nel campo di ponte Mammolo, sgomberato a Roma il mese scorso. Campi e luoghi di concentramento della miseria, prima e dopo la frontiera, sono il destino comune per molte persone. La povertà estrema e senza voce, dove si sedimenta una fascia di popolazione globale alla quale non è concesso altro che essere sfruttata e sopravvivere senza nessuna tutela, sembra essere una presenza costante in tutte le grandi città dell’Occidente. La frontiera, quindi, non è unicamente davanti a noi, non si esternalizza solo verso il Sud, ma è parte integrante di un modello di gestione della povertà presente anche nelle nostre città. L’elemento emergenziale, lo stigma sociale della povertà, la passivizzazione dei migranti, servono per agevolare un’economia dell’accoglienza che, come dimostrano le inchieste in corso, arricchisce bande criminali che non si fanno scrupoli a speculare sui soggetti più vulnerabili. Com’è potuto accadere che nonostante le denunce di molti, nonostante le manifestazioni dei migranti stessi – spesso scesi in strada da soli – contro la cattiva gestione dei Centri ci sia stato così tanto disinteresse? Probabilmente ciò è avvenuto perché il sistema mediatico, abituato ad annaffiare le paure collettive, si è concentrato sulle “colpe” di chi era oggetto della speculazione più che di chi speculava. Per mesi, media locali e nazionali, talk show e politici non hanno fatto altro che puntare il dito contro i 35 euro che prendevano i migranti, mettendo gli italiani poveri contro altri poveri, senza fornire elementi per comprendere quanto realmente stava accadendo. Eppure non sarebbe stato difficile da far emergere tutto questo, bastava parlare con i migranti, farsi raccontare, magari dare voce a uno di loro per capire che spesso nemmeno 2,50 euro al giorno venivano dati. Al contrario, diversi giornali, invece di chiedersi – e di chiedere – come mai le persone manifestavano per avere un sistema di accoglienza dignitoso, hanno ribaltato il significato della protesta facendo passare per dei privilegiati coloro che si lamentavano di abusi e maltrattamenti.

C’è una grande discussione da fare sulle politiche di accoglienza in Italia degli ultimi 25 anni, occorre comprendere che intorno al tema della migrazione c’è una questione centrale che la politica non vuole affrontare per paura di finire sul banco degli imputati, la povertà. In questi ultimi vent’anni i poveri li abbiamo rinchiusi e colpevolizzati, isolati e nascosti, forse è arrivato il momento di cambiare prospettiva e che ognuno si assuma le responsabilità che gli spettano.

MH
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