di Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 11 novembre 2015 – C’è un’immagine che mi rimane in testa dopo questo lungo viaggio oltre la frontiera tra il Libano ed il Marocco. E’ quella di una donna che cammina a piedi nudi, in equilibrio precario sul filo spinato con dei bambini aggrappati. Sotto di lei un mare in tempesta, minaccioso e gelido nel quale potrebbe cadere, dietro di lei un pericolo ancora più grande dal quale fuggire. Potrebbe essere una donna siriana, nigeriana, palestinese. Potrebbe essere sulla rotta che dal Marocco porta alla Spagna, o da quella che dalla Libia porta all’Italia. Oppure potrebbe essere in cammino nella rotta balcanica, che dalla Siria passando per la Turchia porta alla Grecia. E’ l’immagine della sofferenza, dei passi dolorosi degli innocenti, cammino senza certezza di chi lascia la propria terra per scappare da guerra e miseria. E’ un’immagine che ne racchiude tante altre. E’ la somma delle persone in cammino sulla frontiera o bloccate dentro di essa. Persone in equilibrio precario tra la vita e la morte, persone che non possono andare avanti e che non possono tornare indietro.
Se dovessi dire quale sia il filo rosso che accomuna la frontiera tra Occidente e resto del mondo potrei affermare che questa divisione altro non è che la manifestazione reale, concreta, di una scissione invisibile ma presente in ogni luogo del pianeta. Quella tra ricchi e poveri, i primi e gli ultimi. Beirut di questa apocalisse che viviamo ne è sicuramente l’emblema, lusso e miseria sono nelle stesse strade del centro di una città che continuamente mangia se stessa. I bambini siriani, che ovunque chiedono l’elemosina con le loro madri, mentre dormono sui cartoni sono illuminati dai colori delle grandi catene commerciali e diventano il simbolo di una frontiera che è ovunque. Siamo scesi nel Sud del mondo per capire come aprire corridoi umanitari, per affermare che il diritto alla protezione umanitaria per i profughi deve diventare diritto per tutti e tutte. Diritto valido per tutta l’umanità.
Ci siamo addentrati nel labirinto di vicoli della periferia senza luce di Rabat, e abbiamo sentito il pianto delle donne camerunensi aggredite da giovani impuniti, prese a calci e pugni gratuitamente per strada come i bambini sadici fanno con le lucertole. Abbiamo visto bambini del Congo, della Nigeria chiusi in piccole stanze senza luce, alcuni di loro non ci hanno mai sorriso, mai. Non vanno nelle scuole come i nostri, perché non hanno i soldi, perché li aggrediscono. Chissà, ci siamo chiesti, se la gioia questi bambini non l’hanno mai conosciuta o se l’hanno persa in questi luoghi. Forse alcuni di loro sono figli della violenza, come lo è quel bambino che cresce nel grembo della ragazza nigeriana che abbiamo visto avvolta nelle coperte.
Di persone vulnerabili, in quelle piccole stanze di pochi metri quadrati di Tangeri o Rabat, ne abbiamo viste molte, e quando siamo dovuti andar via, dietro di noi abbiamo potuto lasciare ben poco. Una promessa che saremmo ritornati stretta tra i denti, ma niente altro. Pensare che, mentre scriviamo, queste persone siano ancora lì, ci fa tremare le mani di rabbia. “Basterebbe poco per farli felici – ci diciamo – basterebbe poco”. Eppure loro e i loro genitori segnati nella pelle e nell’anima da guerra e povertà non trovano nessuno che gli dia una mano per farli uscire da questa condizione. Occhi spenti, occhi di padri senza lavoro e lucidi di disperazione ci salutano. Gli stessi occhi nel buio della notte cercano il momento per saltare quel maledetto muro che lacera la carne e che lascia ferite profonde come quelle della guerra. Gli stessi occhi nella notte cercano le stelle in un gommone in un mar Mediterraneo che non smette mai di rapire vite.
Non smettiamo di contare la lista dei lutti di queste persone, ogni giorno ci arrivano notizie di persone morte al largo di Tangeri, tra la frontiera della Grecia e della Turchia. Guerra e miseria viaggiano assieme sullo stesso barcone, e le condizioni di vita delle persone che attraversano il Marocco per provare ad arrivare in Europa non sono diverse da quelle che abbiamo visto in Libano o che vediamo a Lampedusa. La nazione dei cedri, ci dice un volontario, si è inclinata per far scivolare via i profughi siriani alla svelta. Alzando il prezzo dell’affitto di un fazzoletto di terra per una baracca, o del permesso di soggiorno per rimanere in Libano. Così i risparmi finiscono mentre la guerra non finisce. Gli aiuti umanitari non bastano. Ci sono nazioni che esportano armi in Africa e Medio Oriente, che comperano a basso costo il petrolio dell’Isis, e poi girano la testa dall’altra parte quando dobbiamo aiutarli a casa loro. Così loro partono, e a volte muoiono nel mare. Le lacrime di un’anziana siriana, che scorrono su un viso segnato dalla durezza della vita, sono talmente grandi che quando baciano la terra mi sembra facciano rumore. Scivolano veloci mentre suo figlio ci mostra la foto di un loro parente senza vita in mare. Mentre è tra le onde abbraccia ancora la sua bambina viva. Questi sono gli stessi bambini che vediamo nei campi. In Libano ne abbiamo visitati alcuni, più o meno grandi. I loro padri ci guardano con terrore mentre gli diciamo di resistere un altro inverno. Il freddo e le malattie rischiano di prendere altre vite. Scuote l’anima come un pugno lasciare queste persone. E’ davvero troppo grande e terribile questo mondo per porre rimedio al male che si è sparso ovunque. Come si fa a lasciare indifesa quella bambina di meno di dieci anni la cui pelle è stata martoriata dalla bomba incendiaria, come possiamo lasciarla dormire in un palazzo abbandonato tra topi e rifiuti? “Dobbiamo aiutarli – ci diciamo – e portarli su, non cambieremo il mondo oggi ma dobbiamo evitare che se non li ha ammazzati la guerra li prenda il mare, il freddo, o una malattia”. Costi quel che costi non li abbandoneremo, dobbiamo dimostrare che il nostro paese è ancora il paese dove non si è spenta la fiammella dell’umanità, dove ancora sono vivi i principi della Costituzione. Corridoi umanitari per questi innocenti allora. Apriamo le porte della ricca fortezza europea e chiudiamo la guerra nel pozzo più profondo di questo pianeta.