Lampedusa, Agrigento, 3 febbraio 2016 – “Era da quando avevo quindici anni che avevo in mente di andare in Europa, ma allora non mi era consentito sognare. La mia famiglia non mi avrebbe mai dato il permesso di partire per paura delle possibili ritorsioni del governo. Così continuai ad andare a scuola fino a quando iniziò il servizio militare. A quel punto non potei più prendere nessuna decisione: cosa fare, cosa pensare, dove andare, la mia vita era completamente nelle loro mani. Per me è stato uno dei periodi più difficili.”
È così che inizia il racconto del viaggio affrontato, da Saare (nome di fantasia), ragazzo eritreo che ha deciso di narrarci la sua storia. Un viaggio che nasce dall’impulso di sfuggire alla morte o forse piuttosto dal desiderio di evitare una vita non vissuta.
Per noi europei è difficile capire cosa significhi abitare un Paese schiacciato da un’ombra che si estende ben oltre i suoi confini nazionali e che perseguita i suoi esuli anche a migliaia di chilometri di distanza. Un Paese in cui il servizio militare coinvolge chiunque dai diciassette ai cinquant’anni e il cui unico scopo è di fornire manodopera gratuita al regime di Afwerki. Un Paese in cui le caserme si trasformano in centri di reclusione per la popolazione e in cui le prigioni diventano dei veri e propri centri di tortura per chi si oppone al regime.
Saare ci racconta di come, prima di partire dall’Eritrea, non avesse compreso pienamente tutte le difficoltà che avrebbe dovuto affrontare per arrivare in Europa. Aveva avuto modo di ascoltare alcune delle storie di chi ce l’aveva fatta, ma molti probabilmente avevano omesso i dettagli più dolorosi. Ciò nonostante gli occhi di Saaremi trasmettono la determinazione di chi ha intrapreso un percorso deciso fermamente a superare tutti gli ostacoli. Ricordo quando una mattina Saare, riferendosi alla protesta messa in atto in quei giorni da chi come lui era trattenuto nell’Hotspot di Lampedusa, sorrise e mi disse: “Chi non rischia qualcosa non ottiene nulla”.
Questa riflessione deve averla fatta anche quando, dopo sei anni di vita rubata dall’esercito eritreo, decise di lasciare il suo Paese e scappare illegalmente in Sudan. Lì si affidò ad una rete di trafficanti che lo avrebbe dovuto condurre in Libia. Nel mezzo del deserto però, il pick-up su cui viaggiava fu fermato dai predoni del deserto che rapirono lui e i suoi compagni di viaggio in modo da poter pretendere un riscatto dalle loro famiglie.
Al contrario delle persone provenienti da altre nazioni, gli eritrei non hanno però un Paese in cui tornare, un Paese pronto a riaccoglierli né tantomeno a trattare per loro in caso di difficoltà. Le maglie di una rete composta da trafficanti, militari al soldo di autorità più o meno riconosciute e forze di polizia corruttibili e perciò già corrotte si stringono intorno a queste persone perché più deboli e ricattabili. Chi non riesce a pagare, o a farsi inviare i soldi dai propri familiari, rischia quindi di concludere il suo viaggio con l’asportazione di un rene o di altri organi.
La famiglia di Saare riuscì a pagare il riscatto e lui fu affidato a un’altra banda di trafficanti che dopo averlo rinchiuso per giorni in una grande stanza, senza acqua per lavarsi e con un solo pasto al giorno, lo condusse attraverso il deserto del Sahara verso le coste libiche. In Libia dopo diversi mesi di attesa fu fatto salire su un’imbarcazione da pesca che dopo tre lunghi giorni di viaggio lo condusse a Lampedusa. Nell’isola pelagica Saare ha vissuto per oltre un mese e mezzo poiché rifiutava di farsi identificare. Oggi è in Sicilia, in attesa di essere ricollocato in un Paese europeo dove iniziare una nuova vita.
Ogni storia, come quella di Saare, produce una crepa in quel muro di indifferenza mista a paternalismo che divide noi da loro. Ogni crepa accresce la nostra consapevolezza che un cambiamento generale nelle politiche sull’immigrazione è necessario e urgente. Perché queste memorie non si perdano e vengano ricordate con forza, occorre continuare a raccontare, finché non si raggiunga una moltiplicazione delle voci, tale da essere assordante.