Sono arrivati, carichi dei loro pochi bagagli, delle loro paure e delle loro speranze. Il nostro prossimo l’abbiamo visto scendere dalla scaletta di un volo regolare da Beirut, alle 7 del mattino di lunedì 29 febbraio: 93 persone di origine siriana, fuggiti al terrore dell’Isis e alla violenza di una guerra che non risparmia le donne né i bambini né i civili. “Benvenuti in Italia” si leggeva su uno striscione ai piedi della scaletta, sorretto dagli operatori della Federazione delle chiese evangeliche (FCEI) e della Comunità di Sant’Egidio accompagnati da funzionari di polizia abituati al protocollo riservato a capi di stato, autorità e vip. Ma questa volta ad arrivare in Italia erano semplici profughi, provati da anni di stenti e di incertezza sul domani. “Mi sento come un albero sradicato – racconta Mariam, decana del gruppo e matriarca di una grande famiglia che ha vissuto quattro anni in un campo profughi – che cerca una nuova terra per piantare le sue radici”.
Eccola l’Italia, da anni sogno ed ossessione di un gruppo di persone che per quattro anni ha vissuto nel campo di Tel Abbas, assistititi soltanto da un generoso gruppo di volontari italiani nell’ambito dell’”Operazione colomba”, un progetto della Comunità Giovanni XXIII. L’Italia immaginata come l’unica speranza, terra promessa da raggiungere con qualsiasi mezzo, compreso un barcone degli scafisti. “Mi avevano anche contattato – racconta uno dei figli di Mariam – e pensavamo di partire con loro… fino a quando mi è arrivato quell’sms”. Un semplice messaggino che annunciava la morte di un parente nelle acque del mar Egeo. Visitai Tel Abbas a novembre dello scorso anno e la domanda era sempre la stessa: “Ma davvero c’è una possibilità di arrivare in Italia legalmente?”. La nostra risposta era prudente ma fiduciosa. Erano i mesi in cui per conto della Federazione delle chiese evangeliche e insieme alla Comunità di Sant’Egidio discutevamo del protocollo che avrebbe consentito l’apertura dei “corridoi umanitari”. E il primo proprio dal Libano. In ogni incontro, di fronte a funzionari che ponevano giustificate domande e sollevavano comprensibili riserve, il pensiero correva alle persone incontrate al campo, alle loro aspettative e alle promesse fatte.
Sino al 15 dicembre, con le luci dell’albero di Natale già accese, quando il pastore Luca Negro per conto della FCEI, il pastore Eugenio Bernardini per conto della Tavola valdese e il prof. Marco Impagliazzo per Sant’Egidio, hanno sottoscritto il “protocollo” per l’apertura di corridoi umanitari per un totale di mille profughi; insieme a loro i dirigenti del Ministero degli Affari Esteri e degli Interni, tutti impegnati in un progetto mai realizzato in Europa.
Da quel giorno, è stata una corsa veloce per cercare di accelerare procedure molto complicate che hanno coinvolto l’Ambasciata italiana in Libano, le autorità di polizia libanesi e ovviamente le istituzioni italiane. Ma a volte le cose girano per il verso giusto e in due mesi è stato possibile raccogliere tutti i documenti necessari, prenotare il volo – generosamente offerto dall’Alitalia – e organizzare la partenza fissata alle 4 di mattina del 29 febbraio.
“Papà, ma perché non ci portiamo la tenda in Italia?” chiedeva un bambino che non ha mai vissuto in una casa né dormito su un vero letto. “E mi potrò curare – sperava Diyar – che a meno di dieci anni ha perso una gamba distrutta da una granata. Forse avrò anche una gamba nuova”. E ce l’avrà, grazie alla Fondazione Bimbi in gamba che offrirà una protesi sofisticata. Così come la piccola Falak – arrivata con la sua famiglia il 4 febbraio, nel primo dei “corridoi umanitari” aperti dall’Italia – ha già avviato la sua chemioterapia e ha già un occhio “nuovo” che le ha permesso di togliere la brutta benda che la sfigurava da più di un anno.
Il nostro prossimo è arrivato così, attraversando un Mar Rosso che si è aperto risparmiando loro sacrifici, umiliazione e forse la vita. L’Italia ha aperto le porte e, il 29 febbraio, ha lanciato un urlo di speranza contro l’Europa dei muri, del filo spinato e dei respingimenti. Un urlo che speriamo scuota i vertici di Bruxelles, come ha scosso l’opinione pubblica del nostro paese. Un urlo salutare per la coscienza di cristiani che, ecumenicamente, hanno cercato di fare la cosa giusta.