Negli ultimi tempi è stato accertato senza ombra di dubbio che l’accoglienza migranti in Italia fa acqua da tutte le parti. Non credo ci sia alcuna Regione che si salvi, partendo dalla Sicilia fino al Brennero. Poiché ho avuto il piacere di toccare con mano tante realtà, in tanti luoghi diversi, posso dire però in tutta coscienza che qualcosa di bello c’è. E comunque non sono mai riuscita a collaborare a progetti malsani. Perciò mi sento quasi in dovere di descrivere una realtà del tutto nuova e diversa per l’Italia. Si tratta dell’accoglienza messa in atto da Federazione Chiese Evangeliche e Comunità di Sant’Egidio per i profughi che arrivano in Italia attraverso il così detto “Corridoio Umanitario”.
Sarà un privilegio per pochi, duemila persone in tutto, che attualmente vivono nei campi profughi del Libano: un granello di sabbia, praticamente. Duecento di loro sono già arrivati in Italia, con volo diretto da Beirut a Fiumicino. Circa due mesi fa ho iniziato a occuparmi dal punto di vista sanitario di quelli che sono arrivati a Milano. Ma dire “sanitario ” è molto restrittivo: in realtà si riesce a conoscerli molto bene, uno a uno, famiglia per famiglia e si stringe quindi una relazione che è anche di fiducia e affettiva. Cosa difficile da fare quando si lavora in un centro dove ci sono a volte più di cento persone e il tempo che si può dedicare a ciascuno di loro è molto poco.
Innanzi tutto questi nuovi arrivati sono stati collocati in appartamenti dove sono perfettamente autonomi, e sono seguiti ogni giorno da bravissimi operatori che piano piano li aiutano a entrare nella nuova società, per non dire nella nuova vita. Cosa non facile! La mia prima esperienza è stata con quattro ragazzi del Mali, molto diversi tra di loro e che non si erano conosciuti prima. Dopo qualche giorno ho visto che erano già sulla strada dell’indipendenza, cosa che non succede quasi mai nei centri. Ma è facile capire perché loro si rendano autonomi nel giro di qualche settimana: l’operatore non è lì con loro ventiquattro ore su ventiquattro per cui quando lui non c’è devono imparare a muoversi nel quartiere, spendere bene i soldi che vengono loro dati, comperarsi il cibo, cucinare, lavarsi i vestiti, andare a scuola di italiano etc…Quindi imparano molto in fretta a responsabilizzarsi e a gestire il loro tempo nel modo migliore.
Le seconda esperienza mi ha portato invece a conoscere quattro famiglie siriane formate da persone di tutte le età. A ciascuna famiglia è stato dato un suo appartamento ai piani diversi della stessa struttura.
Sono quindi vicini ma indipendenti. E l’operatore va ogni giorno a supportare le famiglie nei loro problemi e a rispondere ai loro bisogni, cha vanno da quelli di un bambino di pochi anni a quelli della signora anziana che non si capacita di essere stata catapultata in un mondo così diverso. Con i mezzo tutte le età e tutti i problemi possibili. In questo caso il lavoro è molto più complesso. I profughi hanno avuto a che fare direttamente con la guerra e ne portano ancora i segni sul corpo e nell’anima. Hanno trascorso molti anni nei campi profughi, non so bene come, per il momento, visto che sono arrivati solo quindici giorni fa e avremo tutto il tempo per chiederglielo. Quello che posso dire è che si è instaurata une bella relazione di fiducia, sia con gli operatori , uno dei quali parla molto bene l’arabo e conosce il loro paese e le abitudini di vita, sia con me che mi arrangio come posso , riuscendo a parlare con tutti , cercando di dare una risposta ai malesseri di tutti.
Un modo nuovo quindi di fare accoglienza, che non ha nulla a che fare con i soldi, con la politica, con interessi personali o internazionali. Un modo certamente più difficile da realizzare. Non mi sogno neanche di dire che “in tutta Italia si potrebbe fare così”, anzi, credo che l’esperienza della Federazione delle Chiese Evangeliche e Comunità di Sant’Egidio rimarrà assolutamente isolata e unica. Pessimista? No, realista. Per ora posso solo dire che sono orgogliosa di farne parte.