Lampedusa (NEV), 27 luglio 2016 – Ci sono momenti in cui sono convinta di essere nel posto più bello del mondo. Qui la terra incontra il mare in molti luoghi ed in diversi modi. Ad un’estremità dell’isola, possenti strapiombi di roccia sono battuti da onde turchesi, come in un eterno ma flessibile abbraccio di mare e roccia. Ho un ricorrente e travolgente desiderio di allungare le braccia verso il mare fino a sollevarlo o stringerlo a me, ma l’acqua mi sfugge come in un setaccio ed il mare mi scivola tra le mani. Ad un’altra estremità dell’isola bianche, spiagge sabbiose si dispiegano dandomi una inebriante sensazione di perdita della cognizione del tempo. L’unica cosa che mi viene da fare è sospirare. Questa isola e questo mare hanno visto più di quanto l’essere umano abbia mai visto. E’ possibile che rimangano immutate di fronte alla tragedia e alla gioia che mutualmente gli danno forma?
Lampedusa, non diversamente dal deserto di Sonora in Arizona, è un posto cosi imponente da far mettere in discussione il significato della vita e del posto che abbiamo in essa e nel mondo. Porto spesso persone a visitare il Gates Pass (un belvedere ad ovest di Tucson) per guardare il tramonto così che possano meditare sulla bellezza del paesaggio naturale. Questa visita è strategica da parte mia perché molte persone associano il deserto ad un luogo pericoloso dove la morte non è una possibile eventualità bensì una regolare e prevista ricorrenza. Confondere le morti dei migranti con i pericoli naturali che si nascondono nel deserto è di per sé un meccanismo pericoloso; questo permette di dimenticare o ignorare la pericolosa relazione che intercorre tra le politiche di gestione dell’immigrazione che strategicamente convogliano i migranti in remote rotte del deserto e la morte delle persone in transito. Non è la stessa cosa attraversare il Mediterraneo a bordo di imbarcazioni equipaggiate con moderne tecnologie o con un gommone omologato per 20 persone che ne trasporta 100. Il mare non uccide. Il deserto non uccide. Sono le politiche della frontiera che li trasformano in armi letali.
Lampedusa, spesso chiamata “l’isola degli sbarchi” oppure “l’isola delle tragedie” o ancora “l’isola dei clandestini”, era storicamente un’isola di salvezza dove esausti viaggiatori potevano riposare e sostare, riparare le proprie barche, e prepararsi a proseguire il proprio viaggio. E tutto ciò è facilmente comprensibile se si considera la sua posizione geografica nel mezzo del Mediterraneo, a metà tra il Nord Africa e l’Europa meridionale (in realtà è più prossima alla Tunisia che alle coste dell’Italia). Grande responsabilità nell’attribuzione di questi epiteti negativi, conseguenti alle numerose tragedie susseguitesi al largo delle coste di Lampedusa, è da attribuire invece alle politiche securitarie e di gestione della mobilità che spingono i migranti verso rotte mortali. Inoltre il processo di esternalizzazione delle frontiere attraverso accordi strategici (tra Unione Europea e Turchia cosi come tra Stati Uniti e Messico) aumenta ulteriormente gli ostacoli del percorso migratorio, sia spazialmente che temporalmente.
Lampedusa potrebbe essere un ponte, non una frontiera. Ciò che la rende una frontiera sono le politiche nazionali e comunitarie che cercano di controllare la migrazione rendendo la mobilità umana pericolosa, spesso mortale e retoricamente rappresentata come una minaccia. Mi chiedo cosa ci vorrebbe per fare di Lampedusa un ponte.