Corridoi umanitari, l’Europa guarda al modello italiano degli ‘sponsor’ che integra i profughi

Francesca De Benedetti – La Repubblica

I disegni di Kudus avevano perso i colori. Kinda ha rischiato la vita almeno dieci volte prima di capire che la sua vita normale non sarebbe esistita più: era andata perduta, come quell’album di foto finito in mano ai miliziani durante un saccheggio. Il marito di Kinda era il titolare del più grande negozio di giocattoli di Homs, poi i bambini hanno smesso di giocare. Kevork, invece, ad Aleppo, era elettricista in una città senza corrente. Per loro due, e per altri come loro, i colori, le fotografie, l’energia sono tornati. Perché un modo sicuro per fuggire dalla guerra in Siria c’è, anche se è ancora sperimentale e salva le vite di piccoli numeri.

E’ il corridoio umanitario gestito dagli ‘sponsor’, una buona pratica che sta attecchendo in Italia e grazie alle iniziative dal basso si diffonde a macchia d’olio in Europa: nelle ore dello sgombero di Calais sta conquistando anche la Francia. E nei giorni delle politiche anti migranti di Varsavia, grazie alle insistenze della Chiesa polacca, potrebbe riuscire a persuadere persino la Polonia. Il sistema è stato sperimentato in Italia proprio oggi per la quarta volta nel giro di otto mesi, e significa almeno due cose: per centinaia di siriani in fuga dalla guerra vuol dire arrivare in Europa in modo sicuro e controllato, sfuggendo ai trafficanti, arrivando salvi e integrandosi dopo l’arrivo. Per l’Italia, stando al ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, significa anche “dare prova di civiltà in una Unione europea che con la gestione della crisi dei rifugiati sta dimostrandosi invece troppo spesso sorda, e che di civiltà avrebbe bisogno”.

L’abc dei Corridoi. La prima volta, a febbraio, toccò a Falak, una bimba siriana che rischiava la vista e la vita. La Chiesa valdese mise i soldi dell’8 per mille, la Comunità di Sant’Egidio diede la collaborazione, il ministero degli Esteri e quello dell’Interno dissero sì al protocollo. Gli sponsor, cioè le associazioni, avrebbero individuato una lista di persone particolarmente vulnerabili (donne sole con figli, per esempio); sfruttando il regolamento sui visti, per motivi umanitari, i siriani in fuga dalla guerra sarebbero partiti dal Libano verso l’Italia, per poi essere accolti e integrati grazie a associazioni, istituzioni e singoli.

Il piano è andato in porto: al costo di meno di due milioni di euro, tutti a carico del terzo settore, entro il 2017 un migliaio di persone arriveranno per vie sicure. Non solo dal Libano e dalla Siria, ma anche da Marocco ed Etiopia. Oggi a Fiumicino è atterrato il quarto gruppo: una settantina di persone, che assieme allo sbarco di domani comporrà un gruppo di 128 da distribuire dal Nord al Sud e accolti dai volontari di Pisa come da quelli di Matera o Fano, grazie anche a pensionati e imprenditori che mettono a disposizione appartamenti e associazioni che aprono le loro comunità.

L’elettricista e l’artista. Dalla bocca di Kevork escono un italiano perfetto e un sorriso ampio. “Perché rido? Perché la sorte è ironica”, dice lui, un omone bonario di 43 anni. “Mi ero ritrovato a essere elettricista in una città, Aleppo, che non aveva più corrente elettrica. Non è paradossale? Per non parlare del fatto che ho dovuto venire qui a Roma per poter pranzare in pace assieme ai miei vicini di casa siriani”. Questa mattina, a Fiumicino, Kevork e sua moglie Tamara hanno potuto riabbracciare, grazie alla quarta ondata di arrivi, gli ex vicini di casa in fuga da Aleppo. “Il mio amico – spiega Kevork – lavorava il rame, è un artista ed è di origini armene come me. Decine di anni fa, i miei genitori fuggirono dalla Turchia, persero tutto ma trovarono la pace in Siria. Ora io fuggo dalla Siria, che è in guerra, e trovo la pace in Italia, a Chiusi. Purtroppo non ho ancora trovato lavoro, ma sono felice e vorrei rimanere qui. Auguro la stessa gioia al mio amico appena arrivato: ad Aleppo ci siamo divisi i tozzi di pane quando un chilo di farina costava 500 lire siriane invece di 10, quando eravamo in trappola perché gli estremisti avevano chiuso ogni via di fuga. Quando non avevamo più speranza. Arrivare in Italia ha dato speranza a me e anche agli altri che ora via WhatsApp mi chiedono: posso farlo anche io? Come funzionano questi corridoi?”.

Ecco cosa ha di unico la quarta ondata dei corridoi umanitari: chi è arrivato tra i primi, accoglie gli ultimi arrivati. E la fuga sicura dalla guerra diventa così un modello esportabile: la Francia è a un passo dall’adozione di un protocollo simile per gestire i flussi dal Maghreb, mentre la influente Chiesa polacca sta facendo pressione sul governo di Varsavia per accogliere così un pugno di rifugiati.
Corridoi umanitari, l’Europa guarda al modello italiano degli ‘sponsor’ che integra i profughi

Disegni e album di ricordi. Non importa la città di origine (Homs, Aleppo). A Fiumicino chi arriva ricorda una cosa, sempre: il rumore di fondo. Un insopportabile, assordante tuonare di bombe. I bambini appena sbarcati a tratti sorridono, a tratti hanno gli occhi persi nel vuoto, sotto shock. Arrivare con i corridoi cambia la vita dei loro genitori, anche quando il lavoro non si trova, ma cambia soprattutto la loro. La prova arriva dalla piccola Kudus. Al suo arrivo in Italia, il Papa volle incontrarla assieme ad altri bambini, e tutti insieme regalarono a Bergoglio un album di disegni. Kudus però non riconosceva più i propri: “No, non l’ho fatto io”, diceva guardando un groviglio di macchie nere e mostri. No, non c’era più lei, in quel disegno: ora i nuovi album di disegni di Kudus ricominciano a parlare il linguaggio dei colori. La storia dei corridoi umanitari potrebbe essere ripercorsa attraverso i disegni e le foto. Kinda, per esempio, ha 37 anni e arrivata a Fiumicino resiste alle lacrime per poi cedere parlando di un album di foto. Suo marito era il proprietario di un grande negozio di giocattoli ad Homs. Nelle sue mani c’erano i desideri di tanti bambini, compresi i due figli che al momento in cui è scoppiata la guerra avevano 3 e 6 anni. “Prima la nostra casa era invasa di giochi. Io lavoravo come contabile, mio marito al negozio. Poi sono cominciate le bombe. Ho rischiato la vita almeno dieci volte: provavo a andare a lavoro, pioveva una bomba, scappavo; andavo a prendere mia figlia a scuola, e ancora una bomba”.

“Dopo quelle dieci volte, abbiamo smesso di tentare ostinatamente la nostra vita normale e ci siamo chiusi in casa. Niente corrente né acqua, poco cibo per 4 mesi, con i bambini che non dormivano dal terrore. Poi siamo scappati di casa, e mentre un sacerdote ci aiutava a trovare riparo in Libano, la nostra casa veniva derubata”. Che cosa manca, di quella vita, di quella casa? Qui la dignità ostentata cede il passo alle lacrime: “L’album di foto, i ricordi”. Kinda verrà ospitata a Pisa, pensa alle nuove foto da fare, ai bambini che finalmente ricominceranno a andare a scuola.

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