Il modello di accoglienza che possiamo esportare

Corriere della Sera

Illusione e realtà, panico e ragione: ci sono almeno due modi di essere Europa di fronte ai migranti, e ancora ieri ne abbiamo visto la dimostrazione plastica. Il primo inganno sta, come sempre, sulla punta della lingua: parlare di «emergenza» significa fingere di non vedere che le migrazioni sono un dato strutturale di questo secolo e dunque non si può rispondere con soluzioni straordinarie e diktat prefettizi a flussi per i quali dobbiamo attrezzare forme di integrazione stabile. Il secondo inganno è politico, sta nel bluff dell’Unione, nella bugia della relocation, la redistribuzione dei rifugiati su tutto il territorio europeo. «L’Italia è oggi ancora più sola di prima», ha detto, a Torino, Stephane Jaquemet, il delegato dell’Alto commissariato Onu: «L’Europa fa un passo avanti e uno indietro, è paralizzata». Con questi due grimaldelli, emergenza e separazione, destre radicali ed estremismi identitari stanno provando a far saltare il banco delle liberaldemocrazie europee e dell’Europa stessa. Tuttavia negli avvenimenti di ieri si può cercare un sentiero di razionalità, per stretto che sia.
All’alba, un pezzo dell’Europa paralizzata ha mostrato la sua faccia nello sgombero di Calais. S’è lasciato per mesi, in barba agli allarmi della stampa e delle organizzazioni umanitarie, che la Giungla al confine franco-inglese s’ingolfasse di «emergenze» diventando una città dell’orrore per ottomila anime in cerca di futuro: ora lo sbocco è lo svuotamento forzato, accompagnato da scontri, umiliazioni (ieri sulle file, in attesa per ore, il cibo veniva lanciato), nuova disperazione, fughe più o meno di massa.

Con ben altro spirito (il soccorso in mare resta, a nostro avviso, fonte d’orgoglio nazionale) i marinai italiani hanno raccolto al largo più di quattromila profughi, salvandoli dalla morte tra le coste nordafricane e la Sicilia. Ma, lo sappiamo, il percorso di queste persone in terraferma sarà quasi di certo destinato ad alimentare tante piccole «giungle», slogan d’impatto (Matteo Salvini ha ripreso a battere sull’«invasione») o incauti appelli (difficile definire altrimenti l’invito alla disobbedienza rivolto da un vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri, alle nostre forze armate impegnate nel salvataggio dei migranti). La tanto sbandierata invasione ci porterà al massimo agli stessi arrivi del 2014 ma sarebbe miope ridurne la percezione all’uso strumentale che ne fanno leghisti e xenofobi. Cento giovani profughi collocati, per ordine di un prefetto e magari all’insaputa del sindaco, nell’albergo di un paesino di mille abitanti e lì mantenuti senza far nulla a tempo indeterminato, con un consistente lucro per la cooperativa che li ospita, sono, oltre che un errore organizzativo, un chiaro invito al razzismo. Il problema sta davanti a noi. I centri d’accoglienza sono intasati, i vecchi Cara agonizzano eppure restano in vita, i tempi per decidere lo status dei migranti e il loro diritto a rimanere in Italia sono troppo lunghi (inaccettabili le attese tra il verdetto delle commissioni e l’appello). Insomma, le risposte di un sistema malato come in ogni settore dell’amministrazione, qui fanno più danni: perché sconcertano e spaventano la gente.

Proprio in queste ore, da Fiumicino, viene tuttavia una piccola luce, una diversa prospettiva. Stanno sbarcando tra ieri e oggi centotrenta siriani, da un volo di linea e non da un barcone, attraverso il corridoio umanitario creato da Sant’Egidio e dalle Chiese protestanti italiane in accordo con il nostro governo: sono così 400 da febbraio, diventeranno più di mille in un anno. Questo dato è paradossale perché, da soli (e a loro spese), Sant’Egidio, valdesi e evangelici avranno portato qui un numero di rifugiati quasi pari a quello che l’intera Unione europea è riuscita sinora a ricollocare tra feroci polemiche. I profughi della prima ondata sono già integrati e aiuteranno gli ultimi: accolti non solo da parrocchie ma da privati cittadini e istituzioni locali. Questa piccola immagine nel giorno di Calais parrebbe dirci che la questione dell’accoglienza (altro dalla sicurezza, naturalmente) va spostata su un piano diverso; che gli Stati devono essere anche capaci di farsi volano d’iniziative simili a questa di Sant’Egidio, creando rete, contatti. Come in Italia l’accoglienza diffusa del sistema Sprar deve diventare norma e non eccezione, facendo emergere il buono che c’è nei nostri piccoli comuni senza ordinanze prefettizie, così in Europa è forse tempo di capire che il cuore dei cittadini è oppresso più che dalla xenofobia dalla burocrazia. Buonismo? Magari. Ma soprattutto convenienza, per un Continente che sta invecchiando troppo in fretta per rinunciare all’integrazione di chi arriva. In questa biblica narrazione delle migrazioni del Terzo millennio, spesso non siamo capaci di fare incontrare domanda e offerta: ma a volte l’offerta è assai migliore di quanto pensiamo, storditi come siamo dagli alti lai di chi ossessivo ci ripete «lasciamoli in mare».

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