Perché i corridoi umanitari creati dalla società civile italiana possono e devono essere un modello da seguire per offrire risposte concrete alla crisi dei rifugiati.
Questa è una storia con un inizio drammatico e un finale aperto.
Inizia tutto su una spiaggia di Lampedusa, proprio lì dove comincia(va) l’Europa. Mancano un paio di ore all’alba del 3 ottobre 2013, è ancora notte fonda, e non si vede a un palmo dal naso. A nemmeno un miglio dalla bellissima costa dell’Isola dei conigli, un gommone straripante profughi naufraga — di tutti i motivi possibili: a causa di un incendio — e in quel mare freddo e buio si perdono per sempre quasi 400 persone (i morti accertati sono 366, a cui si aggiungono un’altra ventina di “dispersi”).
È così che, quella mattina dell’ottobre 2013, l’Italia e l’Europa tutta aprono gli occhi e non riescono più a distogliere lo sguardo. Per giorni e giorni, è un susseguirsi di dichiarazioni, commemorazioni, promesse. Poi però i giorni passano, i titoli dei giornali cambiano ed ecco che quelle immagini che dovevano essere indimenticabili finiscono per sbiadire ed i cumuli di promesse restano senza seguito. Dopo quella notte a Lampedusa, e nonostante tutti i mai più a seguire, i morti in mare continuano, anzi, aumentano.
I dati, come al solito, parlano da soli, nudi e crudi: siamo passati da alcune centinaia — 500 vite perse nel Mediterraneo nel 2012, 600 nel 2013 — ad alcune migliaia: sono stati 3500 i morti in mare nel 2014, 3777 nel 2015. Con il picco drammatico del 18 aprile 2015, quando, di nuovo a Lampedusa — proprio lì dove si era giurato mai più — in un naufragio terribile scompaiono in 900.
Guardando il mare, emerge una domanda impellente: come garantire un passaggio legale e sicuro verso l’asilo alle persone in fuga da guerre e persecuzioni, salvandoli da trafficanti senza scrupoli e “viaggi della speranza”?
Quella domanda a cui l’Europa non sa rispondere (ma la società civile sì)
Là dove non sa o non vuole arrivare quel “mostro burocratico” che è l’Unione Europea, è però arrivata la determinazione della società civile.
Sono state tante ed importanti le piccole e grandi iniziative di solidarietà create “dal basso” un po’ ovunque in Europa; tra queste, una — quella dei “corridoi umanitari” aperti dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI) e dalla Comunità di Sant’Egidio — spicca per ambizione e potenziale rivoluzionario.
Il progetto-pilota dei corridoi umanitari della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI) e della Comunità di Sant’Egidio parte da un’intuizione essenziale: idealmente, i profughi dovrebbero essere in grado di presentare le proprie richieste di protezione già alle istituzioni presenti ai paesi terzi, senza esporsi ai rischi mortali del viaggio illegale verso l’Europa (che allo stato attuale è, assurdamente, un presupposto quasi necessario dell’accesso all’asilo). Ed anche se ora questo è impossibile — perché gli stati europei non ne vogliono proprio sapere — è comunque necessario trovare il modo di garantire ai soggetti in condizioni di vulnerabilità un passaggio sicuro verso il paese in cui intendono chiedere asilo. Come dare attuazione a questa idea, tanto semplice in teoria eppure apparentemente irrealizzabile in pratica?
Due articoli dimenticati, una breccia nella “Fortezza Europa”
La soluzione trovata dallo staff di FCEI e Comunità di Sant’Egidio è arrivata grazie alla possibilità offerta da un paio di articoli contenuti in altrettanti regolamenti europei — combinata alla ferma determinazione di trovare un modo per rendere quella norme dimenticate una porta verso l’Europa.
Nonostante la normativa europea stabilisca che i profughi possano presentare richiesta d’asilo solo quando già si trovino nel territorio della UE, esiste infatti una alternativa ai “viaggi della speranza”.
Per la precisione, ci sono due articoli della normativa comunitaria sui visti che, letti insieme, sono in grado di aprire spiragli di umanità nella altrimenti inossidabile “Fortezza Europa”: il primo è l’art. 5, paragrafo 4, lettera c) del codice delle frontiere — che prevede la possibilità per gli stati di consentire l’ingresso per motivi umanitari anche a cittadini di paesi terzi che non posseggano i requisiti per l’ingresso alle frontiere esterne.
Il secondo è l’art. 25 del codice dei visti, che riconosce agli stati la possibilità di rilasciare, in presenza di ragioni umanitarie, speciali visti a validità territoriale limitata. In altre parole, grazie a questi due articoli sarebbe possibile per i richiedenti asilo ottenere dei visti speciali per viaggiare in sicurezza verso il paese in cui intendono presentare richiesta di protezione.
Il “visto umanitario”, tanto chiaramente disciplinato dai regolamenti europei, è rimasto però soltanto inchiostro su carta — almeno fino a quando FCEI e Comunità di Sant’Egidio, dopo mesi e mesi di serrata contrattazione con le autorità italiane, hanno lanciato ufficialmente il loro progetto-pilota.
Questa ambiziosa iniziativa prevede l’apertura di veri e propri “corridoi umanitari” che, nel corso di due anni, permetteranno a 1000 richiedenti asilo, selezionati da appositi team di operatori operanti in loco in ragione della loro particolare vulnerabilità, di partire in tutta sicurezza e legalità da Libano, Marocco ed Etiopia alla volta dell’Italia.
Questo avverrà proprio grazie all’accordo (faticosamente) ottenuto con la Farnesina ed il Viminale relativamente al rilascio dei visti umanitari: il ministero degli Esteri e quello degli Interni, dopo lunga negoziazione, hanno infatti dato la loro approvazione al progetto e si sono impegnati a rilasciare i visti speciali previsti da quelle norme europee a lungo dimenticate.
A questo, però, si ferma sostanzialmente l’impegno del governo italiano: la gestione e sopratutto i costi dell’intero progetto — inclusivi del trasporto dei richiedenti asilo e sopratutto del loro inserimento in un percorso di accoglienza in Italia — restano infatti a carico delle due organizzazioni, che hanno finora stanziato a questo fine 1 milione di euro.
Beirut-Roma, solo andata: 100 storie di speranza
Ci sono voluti tempo, ostinazione e lavoro, ma alla fine la FCEI e la Comunità di Sant’Egidio sono riuscite a costruire un ponte di speranza, un ponte che collega Homs a Roma, passando per Beirut e attraversando tutto il Mediterraneo.
Alla fine di febbraio, infatti, è arrivato in Italia il primo gruppo di richiedenti asilo: 24 nuclei familiari, per un totale di 93 persone , di cui 41 minori , tutti siriani, e per lo più originari appunto della città di Homs (oramai ridotta a un cumulo di macerie). I primi beneficiari dei corridoi umanitari sono atterrati a Fiumicino a bordo di un volo di linea Alitalia — i biglietti sono stati offerti completamente gratis dalla compagnia aerea — e subito inseriti in progetti di accoglienza distribuiti tra Roma e il Lazio, la Toscana, l’Emilia Romagna, il Trentino e il Piemonte.
A precederli, già qualche settimana prima, la primissima famiglia a raggiungere l’Italia grazie ai visti umanitari: una giovane coppia siriana, assieme ai due figli. Per loro, le procedure sono state accelerate il più possibile: la piccola Falak, che ad agosto compirà otto anni, è infatti affetta da una rara forma di tumore all’occhio ed aveva urgente bisogno di accedere ai trattamenti medici in Italia. In Libano, dove la famiglia aveva trovato “rifugio” — se così si può definire un piccolo garage umido alle porte di Tripoli — dopo essere scappata da Homs, per Falak era infatti impossibile ricevere le cure di cui necessita. Tutt’altra situazione qui a Roma: Falak e la sua famiglia vivono ora in una struttura di accoglienza della Comunità di Sant’Egidio a Trastevere e la bambina è in cura presso l’ospedale Bambin Gesù.
I primi cento profughi hanno appena iniziato ad ambientarsi, che già è in dirittura d’arrivo il secondo gruppo (un altro centinaio di siriani, che atterreranno a Roma martedì 3 maggio).
“Una goccia nel mare” — ecco cosa sono 1000 visti, quando a bussare alla porte della Fortezza europea sono così tanti che si fa fatica a tenere il conto. Eppure il loro valore non va sminuito: innanzitutto perché per queste persone stanno già facendo la differenza, concretissima e fondamentale, tra la vita e la morte.
E poi perché questo potrebbe — o meglio: vorrebbe — essere solo l’inizio: la vocazione di questo progetto di apertura e accoglienza è di proporsi come un esempio da seguire e un modello da replicare.
Questa è una storia con un inizio drammatico e un finale aperto. È la storia di una consapevolezza presa guardando il mare, di un paio di articoli di regolamenti europei a lungo dimenticati e di una cosa impossibile che è diventata possibile in un modo molto semplice: facendola.
Sapranno gli stati europei imparare da questa lezione offerta dalla società civile?