Lampedusa, Agrigento (NEV), 2 novembre 2016 – Lampedusa può essere considerata una cerniera che unisce e separa due mondi, uno in cui è permesso viaggiare sicuri e un altro da cui si fugge per cercare condizioni di vita migliori. Lampedusa rappresenta un porto d’approdo comune, sia per chi arriva per necessità che per chi arriva per piacere. Viaggiando, dobbiamo fare i conti con l’amara realtà, cioè una separatezza sia fisica e che morale tra noi e loro: dalle spiagge negate, alle occasionali passeggiate notturne per le strade del piccolo centro storico, concesse solo per poche ore ai migranti che, in un perenne stato di attesa e prima di conoscere il proprio destino, si trovano nell’Hotspot. Colpiscono molto le differenze tra chi arriva tra aeroporti, navi e valigie e chi invece fa i conti con banchine, identificazioni, piedi scalzi e indumenti bagnati. I circa 20 km2 della superficie lampedusana sono il luogo in cui queste due realtà convivono pur incontrandosi solo di sfuggita.
Immaginando una bilancia in cui si pesa il valore dell’essere umano, rimaniamo colpiti dal contrasto tra la leggerezza con cui le politiche internazionali affrontano i processi migratori e la pesantezza delle condizioni di vita di chi migra. Ad esempio, nell’Hotspot, un non-luogo per eccellenza, donne, uomini e bambini vivono in condizioni igieniche allarmanti, e sebbene la loro permanenza non dovrebbe superare un massimo di 72 ore, nella maggior parte dei casi sono costretti a rimanere per settimane o anche mesi. La loro vita è incentrata su un eterno presente. Gli individui vengono resi numeri anonimi, sempre più de-individualizzati, relegati in uno spazio, affidati a dispositivi che stabiliscono chi può restare e chi deve ritornare nel luogo da cui è scappato.
Le condizioni di questa separatezza possono però cambiare e ne sono un buon esempio i corridoi umanitari: viaggi sono sicuri, dignitosi e umani. Durante il 3 ottobre 2016 ho avuto la fortuna di conoscere una splendida coppia di siriani giunti in Italia tramite questo passaggio sicuro, dopo aver vissuto sulla propria pelle la guerra e dopo aver visto amici e parenti affrontare la traversata, senza poi avere più nessuna notizia di loro.
Ricordo bene lo sbarco dei 1.200, la notte del 30 agosto, il trasbordo dalle motovedette della Guardia Costiera era durato tutta la notte, e ad un certo punto un operatore di Mediterranean Hope rincontrò Jasper (nome di fantasia), un ragazzo conosciuto mesi addietro in Marocco. Jasper cercava di oltrepassare la frontiera. Nei giorni precedenti Jasper aveva raggiunto telefonicamente l’operatore e gli aveva confidato di essere a Tripoli e di voler partire per l’Italia. Quella stessa notte quando i due si incontrarono, si abbracciarono come se si fossero aspettati per lungo tempo. Il tempo non era dei migliori quella notte, così come nei giorni seguenti quando le circa 1.700 persone ospitate al centro restarono sotto la pioggia, ammassate, in una situazione umanamente insostenibile, anche se fosse stata anche solo per qualche giorno.
Insostenibile come la pesantezza d’essere “altri”. Insostenibile come la leggerezza con cui le politiche internazionali affrontano i processi migratori e con cui dividono il mondo in maggioranze di cittadini e minoranze di persone illegittime a cui le garanzie della cittadinanza sono negate di diritto e di fatto. Grazie a questi meccanismi sociali di “etichettamento” e di esclusione, impliciti ed espliciti, l’umanità viene divisa tra persone e non persone. Secondo questa logica, per far sì che si stabiliscano i diritti degli uomini appartenenti a una nazione si è costretti a privare di tutto altre persone considerate non cittadine. Lampedusa è la porta d’Europa ed è da lì che bisognerebbe iniziare a riconoscere in qualunque soggetto una possibilità di arricchimento per tutti noi. Questo ci consentirebbe di mettere alla prova lo stato delle nostre democrazie, dei nostri diritti costituzionali e delle modalità di esercizio del potere, in qualsivoglia sua manifestazione. Se così non sarà, Lampedusa rimarrà lo spioncino, anziché la porta, dietro cui l’Europa guarda l’altra parte del mondo che continua a bussare.