Unn sacc’ c’ai a dire

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Lampedusa ed è stato scritto da Barbara Battaglia. 

NdR Questo articolo è stato scritto sabato 5 ottobre, prima dell’ultimo naufragio, in cui sono morte almeno 13 persone. Alle vittime, ai famigliari e agli amici il nostro cordoglio.

Che non si sa cosa dire, non si trovano le parole, quando si assiste a uno sbarco, quando si guardano in faccia delle persone che hanno attraversato il mare, lo racconta Davide Enia nel suo spettacolo teatrale “L’abisso”. Che ha passato tre giorni a fare marmellata di arance. Per scacciare il senso di colpa, per riflettere, esorcizzare il male, lavorare sulla perdita, sul senso di impotenza, forse.

Il 3 ottobre a Lampedusa è una sorta di elaborazione collettiva di un lutto, un’elaborazione che probabilmente non c’è stata, non è compiuta, forse non è possibile. Forse non è possibile salvare le vite delle persone, vederne altre morire, e riuscire a dare un senso a queste esperienze.

A Lampedusa il senso un po’ lo si trova nei racconti che la gente fa, e che ha poca voglia di condividere coi giornalisti. Perchè – mi spiegano – vorrebbero che al centro della narrazione ci fossero le persone che prendono la via del mare. Vorrebbero rovesciare l’eurocentrismo, contrastare il postcolonialismo, mettersi nei panni dell’altro. Carola Rackete ha detto al Parlamento europeo che ha salvato persone, non migranti.

Non sono un monolite, un gruppo informe di individui tutti uguali. Avranno ognuno i propri sogni, passati, desideri, limiti, problemi.

Ho visto questo ragazzino presumibilmente del Bangladesh che non si reggeva in piedi, avvolto in una coperta termica, la notte del 3 ottobre, stava lì, fermo, in attesa che gli dicessero dove andare, al molo Favaloro, dopo essere sbarcato, era lì da solo, poteva avere 13 anni o 17, non lo so, era partito dalla Libia, questo dicevano i suoi compagni di viaggio. Dal Bangladesh a Lampedusa, via Libia. Batteva i denti, era a piedi nudi, vestito poco, fradicio, pioveva a dirotto. Non c’erano genitori o parenti o amici accanto a lui. Un volontario lo ha sorretto, il ragazzino si è accasciato e si è lasciato abbracciare. Non sappiamo nulla di lui. Cosa potesse pensare in quei momenti. E in quelli dopo.

Ad accogliere queste persone al molo ci sono solo uomini delle forze dell’ordine. Nelle due notti in cui sono stata al molo di Lampedusa, ho visto solo uomini, tutti maschi, della finanza, della polizia, dei carabinieri, la guardia costiera. Anche i migranti di quei due sbarchi erano quasi tutti di sesso maschile. Le donne sono pochissime, una è l’interprete dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Ma il primo impatto, appena messo piede sull’isola, è legato all’ordine pubblico, alla sicurezza, all’identificazione di e per queste persone. Non è uno Stato che ti dice: sei salvo, va tutto bene, siamo felici che tu stia bene. No, è uno Stato che, se stai bene e non sei una donna incinta o malato, ti identifica, ti scheda, ti mette su un pullmino e ti porta in un hotspot, in un punto dell’isola in cui nessuno arriva, nessuno passa.

C’è una nuova normativa sui rimpatri, sulle prime pagine dei giornali, intanto.

E ci sono i volontari del Forum Lampedusa solidale che portano l’acqua, i cracker e le brioches, e soprattutto sorridono e parlano con queste persone, pochi minuti, provano a dirgli “welcome” (e alcuni non saranno contenti che lo scriva, perchè rifuggono il protagonismo).

Ma in piazza, ai tavolini dei bar, al molo, al porto, sul sagrato della chiesa, su quel sagrato dove per due settimane hanno dormito persone in solidarietà con altre persone che il governo non faceva sbarcare dalle navi delle Ong, se ne sentono invece tante, di storie: di chi ha salvato, di chi stava in mare il 3 ottobre, di chi ha portato la gente a riva in un altro naufragio, di chi ha accolto nelle proprie case.

C’è anche la storia di chi sta davanti a quella stessa chiesa, la mattina del 3 ottobre, con dei palloncini colorati (di fronte al negozio di Vito, che ne salvò 47 con la sua imbarcazione, quella notte, che è chiuso per lutto) e un paio di cartelloni per dire “stop all’invasione”.

Lontano da via Roma, al centro di quest’isola piatta, c’è l’hotspot. L’hotspot sta in una buca. Sarà l’abisso del monologo di Enia. Sta in quest’affossamento del terreno, si vede poco, una delle strutture – dei prefabbricati grigi, parallelepipedi che sembrano mattoncini lego in mezzo al nulla – è bruciata, da anni, dicono. Le persone che arrivano dal mare le teniamo nascoste in un buco. Così non le vediamo. Non le vede nessuno al molo, vengono fatte salire sui pullmini, portate all’hotspot, trasferite altrove, rimpatriate o portate in Sicilia, in altri centri.

Da un buco escono, dai buchi nelle recinzioni che delimitano l’hotspot, e riemergono, vanno in paese, li puoi incontrare per strada. Alcuni si sono fermati a raccontarci i loro problemi, hanno voglia di testimoniare quanto hanno vissuto. Basterebbe passarci mezza giornata sull’isola, per poter parlare con alcuni di loro, direbbero molto, non so quanti giornalisti abbiano avuto voglia di raccontarne le parole, non mi pare siano stati abbastanza a farlo.

Noi giornalisti cerchiamo sempre “le storie”. Ogni tanto mi chiedo cosa voglia dire. Come mi sentirei se qualcuno provasse a raccontare la mia storia: esiste una “storia unica” di una persona, come direbbe Chimamanda Ngozi Adichie, di un evento, o è sempre una semplificazione e una probabile banalizzazione?

Nella notte tra il 2 e 3 ottobre, nella stessa notte il cui ragazzino bengalese è sbarcato sull’isola insieme ad altre 70 persone, è stato inaugurato un memoriale con scritti tutti i nomi e cognomi delle persone morte nel 2013. Nomi e cognomi, ridare loro una identità, come è stato fatto anche sulle tombe di alcuni dei morti che sono stati sepolti al cimitero. La sera dopo, alcuni dei sopravvissuti hanno organizzato la proiezione di un documentario composto da più cortometraggi, con le loro testimonianze, del male più oscuro, del loro abisso, del “mors tua vita mea” e delle cose indicibili successe quella notte, mentre lottavano per la sopravvivenza, per restare a galla.

Di storie a Lampedusa ce ne sono a migliaia.

Alcune sono quelle di questi ragazzi che escono dai buchi dell’hotspot che sta dentro a una buca e vanno a cercare una connessione internet o una pizza, perchè il cibo, dicono, non è buono.

Altre sono morte.

Le storie di Lampedusa sono sepolte. Al cimitero.

Unn sacc c’ai a dire.

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