Beirut, quando sembra una scena di Parasite

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Beirut ed è stato scritto da Barbara Battaglia

Beirut (NEV), 5 febbraio 2020 – In Parasite, film del regista sudcoreano Bong Joon-ho, candidato a sei premi Oscar, si raccontano le vicende di due famiglie, una ricca e una molto povera, la prima che abita in una lussuosa casa di design, la seconda in un seminterrato, umido e maleodorante (o forse dove si respira “puzza di povertà”). A questa immagine ho pensato appena sono entrata nella stanza dove vivevano due giovani siriani, li chiameremo Renzo e Lucia, e il loro bambino di un anno, a Beirut, in un quartiere residenziale. Come i protagonisti del film, anche la coppia siriana prestava servizio come portieri per lo stabile dei ricchi, le famiglie abbienti che occupavano i piani alti del palazzo. In basso, nel buio del seminterrato di pochi metri, una guardiola che nemmeno sarebbe da considerare come possibile abitazione per nessun essere umano, una giovane famiglia di “poveri” rifugiati, nei sette piani “in alto” inquilini libanesi, immaginiamo, sicuramente classe media a Beirut.

Nel parcheggio auto di lusso e grossa cilindrata, il palazzo è dorato, la facciata è luccicante, tanto quanto è buio il seminterrato. Lucia è colta e consapevole, lavorava in banca e come insegnante, in Siria. Ha sempre guadagnato poco ma non è quello ciò che conta: le importava lavorare perchè la rendeva felice e realizzata.

Ci dice che i vicini di casa-datori di lavoro sono più affettuosi con un gattino che abita nel cortile che con suo figlio di un anno, che loro sembrano “trasparenti”, come se non esistessero.

Renzo ci racconta delle torture che ha subito in Siria, mentre parla si gira verso di me e gli vengono le lacrime agli occhi e mi fa vedere la pelle d’oca, dice che ha sempre paura ogni volta che vede un militare. Non mi aspettavo in un contesto del genere che un uomo fosse così capace di mostrare i suoi sentimenti e le sue paure. Tra Renzo e Lucia, per quel poco che li ho conosciuti, non c’è nessun gap di genere, mi sembrano focalizzati sulle loro priorità, determinati, una coppia in cui “uno vale uno”.

Molto più femministi, insomma, dei promessi sposi manzoniani, mi scuseranno per l’accostamento indebito.

Il giorno dopo il nostro incontro sono partiti con un corridoio umanitario, realizzato dalla FCEI nell’ambito del programma migranti e rifugiati, Mediterranean Hope, verso l’Italia, con un regolare volo di linea e la possibilità di fare richiesta d’asilo, con un visto umanitario in tasca.

Avranno smantellato la loro stanza, decorata con cura in ogni dettaglio, tolto ogni adesivo a forma di emoticon, forse anche ridipinto il soffitto e le pareti. Uno dei soprammobili, un cuscino a forma di cuore, lo hanno regalato all’operatrice di Mediterranean Hope che li ha seguiti nel percorso dei corridoi umanitari, Halima.

Renzo e Lucia hanno sogni e ambizioni e vorrebbero tante cose, nella vita, come tutti, ma prima di ogni cosa, vogliono essere trattati da esseri umani, non come animali.

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