Per una sconosciuta gli sconosciuti non piangono. La storia di Ester Ada, da Lampedusa

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Lampedusa ed è stato scritto dal volontario Giovanni D’Ambrosio

Lampedusa (NEV), 27 aprile 2020 – Esceth Ekos è il primo nome con cui alcuni giornali italiani l’hanno chiamata. Invece il suo nome era Ester Ada. Aveva diciotto anni, proveniva dalla Nigeria ed era incinta. È morta durante le operazioni di salvataggio il 16 aprile del 2009 nel Mediterraneo mentre cercava insieme ad altre centocinquanta persone di raggiungere l’Italia. Ormai già undici anni fa, e in questi giorni ricade l’anniversario della sua scomparsa.

Quanto siano importanti i nomi ce lo spiega Paola, la nostra guida che si è offerta di accompagnarci nella visita del cimitero di Lampedusa. Prima di entrare Paola ci tiene a sottolineare il motivo che spinge lei e altri a impegnarsi nell’organizzare queste visite sia con adulti che con ragazzi, e a compiere lunghe ricerche per dare un nome, una faccia, una storia, alle tante persone che muoiono in mare nel tentativo di raggiungere l’isola. «La dignità non è un concetto univoco» racconta, «Intendo che io difendo e affermo la mia quando difendo e affermo quella dell’altro. Coi bambini spesso, quando li portiamo qui, gli faccio fare un gioco. Ne scelgo uno a caso e tutti gli altri devono iniziare a parlare di lui. Possono parlarne bene, male, ma la regola è che lui non possa dire niente, non può parlare mentre tutti parlano di lui. Poi, dopo qualche minuto, interrompo il gioco e chiedo al bambino o alla bambina che cosa abbia provato, come si sia sentito a essere ignorato. Se alcuni vivono l’attività con silenzioso disappunto, e raccontano dopo la sensazione di sentirsi come scomparire, altri invece decidono di imporre la loro presenza anche senza parlare, magari ricorrendo alla violenza, se non esiste altra via. Così cerco di fargli capire che quando si parla sempre di migranti, migranti e migranti, loro, i migranti, non parlano quasi mai. Le loro voci non si sentono. Siamo sempre noi a parlare di loro. Rimangono numeri, non conosciamo le loro storie, in qualche modo viene negata loro l’umanità che al contrario ci accomuna. Con gli adulti invece faccio l’esempio dei campi di concentramento. Quand’è che abbiamo davvero sentito empatia per quelli che venivano rinchiusi nei campi di concentramento? Leggendo la storia o vedendo le immagini della liberazione dei campi potremmo aver provato rabbia, paura, indignazione, vergogna, ma quand’è che abbiamo davvero sentito empatia per loro? Solo quando sono stato loro stessi a raccontare la storia, la loro storia, parlandone in prima persona, solo in quel caso allora iniziamo a sentire davvero empatia. Sono andata a informarmi e, a parte Primo Levi, i sopravvissuti dei campi di sterminio ci hanno messo 40 anni dalla fine della seconda guerra mondiale per trovare il coraggio o la voglia di raccontare le loro storie. Quindi potete immaginare quanto tempo ci metteranno i migranti che sono sopravvissuti alle guerre, alle torture, alla prigionia e alla traversata del Mediterraneo. Per questo motivo mi sento sempre un po’ in imbarazzo a raccontare io le loro storie, ma penso che sia comunque importante ricordarle e trasmetterle; proprio per avere coscienza che non si tratta di numeri, ma hanno nomi, famiglie e storie con tutta la dignità di essere ricordate». Sul cartello all’ingresso, scritto in grassetto si legge «Per uno sconosciuto gli sconosciuti non piangono». Solo la “relazione”, ci spiega ancora Paola, può rompere quel muro che divide gli esseri umani. Conoscersi e conoscere le storie di coloro che sono morti cercando di oltrepassare il Mediterraneo e che sono sepolti tra le tombe lampedusane, tra cognomi locali, ci offre la possibilità di riconoscere a queste persone un’umanità, un passato, una storia che alcuni cercano di negare. Come è scritto sul cartello all’ingresso del cimitero, sebbene su tantissime di queste tombe non ci sia un nome o una data di nascita, «tutti loro hanno vissuto. Hanno gioito e sofferto, hanno sperato e lottato e qualcuno li ha attesi e pianti». Così entriamo nel dedalo di passaggi stretti tra le tombe. Alcune di queste si notano perché sono sopra disegnati pesci, conchiglie, frutti di mare. È tra quelle tombe che conosciamo la storia di Ester Ada.

Solo grazie alla presenza del fratello di Ester sulla stessa barca si è potuto restituire un nome, e quindi dignità, a quella vita. Le vicende sono note. Avendo ricevuto ordine da Malta di soccorrere un’imbarcazione in pericolo con a bordo 153 migranti, il mercantile battente bandiera turca Pinar riesce a portare tutti in salvo sulla nave. Insieme ai migranti c’è anche il corpo ormai privo di vita di Ester Ada. Le operazioni di salvataggio non possono però essere completate. Una targa affissa sulla tomba di Ester ci racconta come finì la storia: «Per quattro interminabili giorni la Pinar rimane a 25 miglia a sud di Lampedusa, bloccata da un interminabile braccio di ferro tra governo maltese e governo Italiano che si rifiutano di accogliere il mercantile. Soltanto il 20 aprile viene autorizzato l’ingresso della nave nelle acque territoriali italiani. I migranti finalmente accolti a Lampedusa». Quattro interminabili giorni c’è scritto, e anche Paola sottolinea questo passaggio. Sorprende perché in undici anni siamo stati abituati ai “porti chiusi” e alle attese di settimane, al silenzio alle richieste di soccorso, ai respingimenti condotti dai mercantili come la Pinar e all’inazione degli stati responsabili delle operazioni di Ricerca e Soccorso. Come ciò che è accaduto pochi giorni fa nel Mediterraneo. Con un’imbarcazione alla deriva la cui posizione era stata segnalata per giorni e con i governi italiano e maltese sordi alle reiterate richieste di aiuto. Con un mercantile, a cui era stato richiesto da Malta di intervenire, che prosegue indifferente verso la sua destinazione, Genova. Con i porti che rimangono chiusi e i migranti respinti in Libia. E altre 12 persone che, come è stato per Ester Ada, si aggiungono, anonime, alle vittime del Mediterraneo.

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