Lampedusa, molo e palcoscenico

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Lampedusa  ed è stato scritto da Niccolò Parigini

Dopo appena 10 giorni a Lampedusa una cosa mi è estremamente chiara, qui il tempo non scorre come in altri luoghi. Su quest’isola mille realtà si intrecciano e con loro altrettante storie. Questa terra sembra a volte indurita dall’abbandono mediterraneo, un grande scoglio solitario dove destini si incagliano su decisioni prese lontano. Lo scorrere del tempo a volte lento e avvolgente, quasi statico; poi frettoloso, come in balia delle emozioni, suggerisce di ascoltare e osservare.

Lampedusa è più distante dell’Europa e dall’Italia di quanto non suggerisca la geografia. Se ricordata, forse frettolosamente, quando di comodo, viene dimenticata altrettanto in fretta. Una sorta di avamposto apparente in cui proclami da parte di governi e di (alcune) organizzazioni si sprecano, sfruttando le candele della memoria (deturpandola), candele messe poi in ombra dai riflettori accesi per autoincensare la “gloria dell’altruismo inscenato” o, in modo egualmente triviale, per giustificare iniziative politiche che fungono da palliativo, vedi le navi quarantena. Lampedusa è la culla di una realtà fortemente condizionata e influenzata da confini che vanno molto oltre a quelli tracciati su carta.

Ibrahim Diabate, operatore MH e poeta, intervistato dopo la presentazione del suo primo libro

A ridosso della settimana del 3 ottobre si percepisce un sommesso fermento nell’aria, dopo la proiezione del film Respiro, alcune comparse e attori, (giovani ragazzi e ragazze all’epoca) si avvicinano per salutare dopo 18 anni il regista, per alcuni amico, Emanuele Crialese. Tra note di musica jazz del ristorante vicino, la presentazione del libro Yen Fehi, Bako (Là, sull’altra sponda) dell’amico e collega Ibrahim Diabate, una raccolta di poesie di chi ha vissuto più di una vita in più di un paese, di chi ha seguito e segue da vicino la realtà complessa dei migranti e dei lavoratori, insomma degli uomini e delle donne. Anche in questo si materializza quest’isola, nei ricordi di chi vi è nato e di chi ci è arrivato.

Per via Roma (il “corso” centrale dell’isola, ndr) vengono affisse locandine per la commemorazione ecumenica – promossa dalla FCEI con la parrocchia – in chiesa, una signora chiede se ci sarà una marcia in ricordo delle vite spezzate in mare il 3 ottobre 2013, in risposta le dicono che non sarebbe giusto visto che la processione religiosa non si è potuta tenere causa Covid.

Intorno alle 3:10 di notte del 3 ottobre iniziano a radunarsi davanti al monumento commemorativo in ricordo dei 368 migranti morti in mare 7 anni or sono, gruppi di studenti, singole persone, coppie. Alcuni c’erano nel 2013, alcuni hanno teso la mano in mare, erano lì per caso, ma hanno necessariamente salvato vite.

Qui è la società civile, di Lampedusa e non, che cerca di avvalorare l’isola, portando avanti il ricordo. Vengono proposte iniziative che mirano all’inclusione, dove tutti sono i benvenuti perché tutti contano.

È un’isola da calcare con passo delicato, un’isola di cui è facile innamorarsi, con le sue contraddizioni e i suoi contrasti, facendole il torto di non comprenderla fino in fondo.

Mi sento di ringraziare chi mi ha accolto come persona, chi spero di poter chiamare amico e amica un giorno.

“A chi pesca la memoria dal fondo del mare

Carezza la mia brulla pelle

Questo giovane vento che viene da lontano

Sulle mie coste approdano vite

Alle mie orecchie giungono lingue mai sentite

Storie di terra e acqua

A volte spente dal sole in mare

Parole pronunciate senza coscienza ma con costanza

Una morale che decanta con la distanza

Ricco di storie è il fondale del mare

che sulla terra sono da riportare” 

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