Il Covid19, visto dai “ghetti”

Roma (NEV), 4 novembre 2020 – Il distanziamento sociale, il lockdown, l’emergenza sanitaria hanno tutto un altro significato quando si vive in un “ghetto”.

A Cassibile, una frazione di Siracusa, lo scorso agosto una tendopoli è stata rasa al suolo. Le persone che vi abitavano stanno ricostruendo come possono dei ricoveri di fortuna in quel luogo. “La situazione igienica è pessima, purtroppo – racconta Piero Tasca, operatore della Casa delle culture di Scicli – , parte dei rifiuti dello sgombero sono ancora lì. Le misure contro il Covid sono ovviamente poche, in questa situazione di precarietà. Abbiamo distribuito mascherine alle persone, una quindicina, che vivono a Cassibile. Ma non basta: sarebbe necessario un percorso di sensibilizzazione sull’emergenza sanitaria, con la presenza di mediatori culturali, in un contesto in cui la sopravvivenza è difficile e le condizioni di vita sono drammatiche. Ed è per questo che come Mediterranean Hope, insieme alla rete presente sul territorio, ci stiamo impegnando affinché questo si possa realizzare. Anche perché nei prossimi mesi, con la raccolta delle patate e degli agrumi le persone aumenteranno e la situazione non può che peggiorare”.

“A Rosarno e nella Piana di Gioia Tauro – spiega Francesco Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope, programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia – le politiche di gestione della frontiera hanno favorito un fattore sindemico (sulla nozione di “sindemia” si legga a questo proposito l’articolo di Richard Norton sul Lancet, ndr), cioè lo sviluppo di una dinamica che mette insieme più malattie, non semplicemente il Covid ma anche altre patologie. Questo è dovuto al fatto che per anni la politica dell’emergenza invece di affrontare il tema dei diritti sociali ha lasciato queste persone là dove si trovavano. Siamo alla seconda ondata, noi da un anno chiediamo che vengano smontati i ghetti: questo non è avvenuto. Insieme alla ONG Medu in queste settimane cerchiamo di tutelare sanità pubblica, distribuendo presidi sanitari e mettendo in contatto le persone col sistema sanitario. E’ molto difficile proprio per il contesto in cui molte persone vivono: i lavoratori irregolari difficilmente sono nelle condizioni di fare il tampone, perché perderebbero giornate di lavoro. Per questo a più riprese abbiamo chiesto nella zona rossa una forma di tutela per i lavoratori messi in quarantena. Stiamo cercando quindi di fare il possibile, supportando il lavoro di Medu, per aiutare chi lavora ad avere le garanzie e le tutele necessarie”.

 

 

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