Gli eroi non esistono, esiste l’umanità. Una recensione de “Le nuotatrici”

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). O dalle volontarie e dai volontari che accompagnano per periodi più o meno lunghi il percorso di MH. Questo “sguardo” è stato scritto da Francesco Piobbichi.

Roma (NEV), 29 dicembre 2022 – Nel corso del tempo, e nel lavoro in frontiera è cresciuta in me una sorta di diffidenza preventiva rispetto ai film che raccontavano dei migranti. Un po’ perchè infarciti da retorica umanitaria da mercato elettorale, un po’ perchè la realtà che spesso raccontavano era contraddistinta dalla dimensione della pietà umana, della passivizzazione del soggetto. Il film Le Nuotatrici, invece, mi ha colpito positivamente, tant’è che ho sentito il desiderio di scriverne. Proprio io che nel tempo ho lavorato nel terreno della decostruzione delle immagini per la riappropriazione del racconto sociale, della memoria tramandata, contro quei processi di estrazione che spesso cadono nella pornografia delle immagini e del dolore mi trovo a dovermi ricredere. Il film è un capolavoro narrativo, lo è perchè in grado di comunicare il viaggio in frontiera non a noi, o non semplicemente a noi, ma ad un pubblico più vasto. Lo è perchè al suo interno esistono una marea di piccoli messaggi, che riescono a farci capire, perchè la gente parte, perchè la gente muore. Cosa lascia e cosa trova. Le nuotatrici è un film che racconta attraverso la banalità del bene la storia di due sorelle siriane che partono per l’Europa. Le nuotatrici hanno una storia da occidentali, sono bianche, vanno a ballare in discoteca e gli piace bere, hanno i capelli al vento, probabilmente sono di religione cristiana, amano il proprio paese e odiano le molestie sessuali. Mettono in discussione l’autorità paterna. Sono cioè come la maggior parte delle nostre adolescenti, con i loro sogni, con i loro conflitti. La guerra, nel loro caso, le costringe a partire, e la loro storia è una storia di un popolo, di milioni di persone che come loro fanno lo stesso tragitto. Tragitto dove molto spesso è il destino a decidere chi arriva e chi no, singole scelte. Il viaggio che diventa avventura, che salda nuovi legami, che costringe ad abbassare la propria identità, nasconderla, a gettare in mare il proprio passato, le valigie e le medaglie per arrivare salvi. Filo spinato, cani, violenza e molestie, sono semplicemente accennati, si capiscono quanto basta per sentirle vicine pur guardandole da lontano. Si sente il sale sulle faccia, e si sente l’umidità nei piedi, ed è questo il capolavoro del film, riesce a farci riconoscere che chi attraversa le frontiere è un essere umano come noi. Riesce a farci provare profonda rabbia per quella richiesta di soccorso negata, che ci fa vergognare di essere europei. Greci, ed italiani, in particolare. Noi che siamo popoli del mare, che siamo nati in questo spazio comune chiamato Mediterraneo, noi che da questo mare siamo nati e che oggi l’abbiamo chiuso e serrato. Noi che abbiamo affondato la barca di Enea. Questo è un film che finisce bene, politicamente corretto perchè non mette troppo il becco sulle vicende interne della Siria, ma che al tempo stesso ci fa venire la pelle d’oca quando prima della gara la ragazza corre per tutti noi, per i morti sotto le bombe, per i morti in mare e in frontiera. E – lasciatevelo dire – per me questo film risolve un dilemma perchè mi ha fatto capire lo sguardo di chi arriva, per anni, ho distribuito migliaia di bicchieri di the al Molo Favaloro di Lampedusa con i miei colleghi e altri solidali all’umanità appena salvate dalle onde. In questo film ho trovato l’importanza di quel gesto, quanto conta dare a chi ha fatto quel viaggio quel semplice movimento, quasi come se quel bicchiere segnasse simbolicamente la fine delle prima tappa del viaggio, sicuramente la più drammatica e rischiosa, anche se quello che ancora li aspetta non sarà privo di altre difficoltà. Ho pensato molto a questo film ed al lavoro fatto con i corridoi umanitari in Libano, alle centinaia di persone che abbiamo incontrato e che poi sono arrivate in sicurezza in Italia. In questi anni ho visto i bambini siriani, sorridenti, con le scarpe e le valigie arrivare in aeroporto a Roma Fiumicino e giocare in attesa delle procedure, e li ho visti piangenti, stanchi, scalzi e con la paura delle onde negli occhi arrivare a Lampedusa. C’è di che impazzire nel vedere con quanta facilità si può salvare le vite e con quanta si muore. Se tocchi quella linea, come è capitato a noi, ne rimani segnato a vita, ne resti testimone. E’ come se tocchi l’ingiustizia del mondo con le mani. Questo film andrebbe proiettato in prima serata, non penso che accadrà, perchè la normalità che spiega in meno di due ore la ferocia dei nostri governi non trova spazio. Questo film infatti risolve ogni discussione, soffia via la propaganda. E’ un film che finisce bene in un mondo di merda, che ci fa capire che gli eroi non esistono ma esiste l’umanità. Ci dice che salvare il prossimo è una cosa naturale, che chi salva una vita salva il mondo intero. Viva le nuotatrici e chi si getta in mare per il prossimo, e che siano maledette le guerre e le frontiere.

Dedico questo articolo a Samia Yousuf Omar. Giovane atleta somala che partecipò alle olimpiadi di Pechino e che continuerà per sempre a correre tra le onde.

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