Un po’ più complesso della disperazione.

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Osvaldo Costantini – NEV

Sogni, speranze, conflitti familiari, delusioni… niente di tutto ciò emerge: tutto è nascosto dietro le etichette semplificanti attribuite ai migranti. Disperati, bisognosi in fuga da guerre e carestie, oppure impostori, clandestini rubalavoro. La posizione “di destra” e xenofoba, quando non tifa apertamente per i naufragi, punta quantomeno a rappresentarli come un pericolo per la stabilità economica, sociale e culturale (!) del paese. Il discorso più “di sinistra”, mirato all’accoglienza, troppo spesso si appiattisce sulle retoriche dell’umanitario e schiaccia l’accoglienza sui temi del buonismo e del caritatevole. Entrambe le posizioni producono ed alimentano una precisa forma di violenza, un violenza simbolica che occulta la complessità storica, culturale e biografica dei soggetti in questione.

Conduce, altresì, a quella particolare visione del mondo in base alla quale, data la loro condizione di disperati, dargli la possibilità di una vita qui, è già tanto, poco importa il grado di marginalizzazione che si troveranno ad esperire. Non c’è spazio, in queste visioni del mondo, per ciò che quelle persone vogliono fare, tanto da non risultare per niente stupefacente  le svariate polemiche che sorgono ogniqualvolta una università italiana decide di stanziare delle borse di studio, o di collaborazione, destinate a rifugiati. “eh no, io capisco aiutarli, ma che sia avvantaggiato rispetto a mio figlio e magari un giorno prendere il suo posto…”. Che i negri facciano i negri è il sottotesto, latente, ma non troppo, di queste argomentazioni che mischiano razzismo e classismo in un coktail infernale. È questo ciò che mi viene in mente quando Amadou, interrompendo la mia spiegazione dei suoi diritti di minore, mi dice che l’istruzione è per lui fondamentale, prima dello stesso ottenimento dei permessi di soggiorno : “education, I need education”. È ciò che emerge mentre la voce di Amadou trema, e questo grosso ragazzone piange, raccontandoci che le percosse in Libia, le torture in carcere, le ha sopportate per raggiungere questo scopo. Tutto il viaggio dal Gambia all’Italia, lo ha fatto per questo obiettivo.  La sua voce si abbassa, il suo tono diventa strano, mentre me ne spiega il motivo: la madre ed il padre hanno avuto un conflitto per la sua istruzione, in seguito al quale il padre ha abbandonato la moglie. Lui voleva che Amadou andasse a lavorare nelle terre di famiglia, la madre optava invece per la scuola. Dopo l’allontanamento, il padre ha fatto qualcosa e la madre è morta. La voce di Amadou, potente, si è trasformata in un sussurro timoroso di poteri di morte che chiaramente cominciano ad apparire nella stanza. Il suono del ventilatore deve somigliare al ronzio delle domande nella testa di Amadou: ma devo spiegare perché? Questo bianco crederà alle mie parole? Lo anticipo: un Ju-Ju? Chiedo diretto e sicuro. Amadou non se lo aspetta e balbetta un si e mi spiega, appunto, di un attacco di stregoneria, che nel West-Africa anglofono viene spesso descritto come Ju-ju. Ripete che vuole studiare, perché l’istruzione è stato il motivo di discordia della sua famiglia e ha questo sogno come elemento risolutore del conflitto a posteriori. Si rende conto che conosco molto bene il linguaggio a cui si sta riferendo e  mi lascia intendere che ha anche lui paura qui, per poi ricadere nel racconto della Libia. Quando riprende a balbettare e piangere, chiedo l’intervento del mio collega che è anche un Imam: gli chiede di recitare alcuni passi del corano. Amadou si tranquillizza e mi chiede se può studiare. Sorrido, gli dico che può iniziare a seguire il corso di italiano del centro. Mi saluta, Amadou, ricordandomi che la complessità di queste storie, delle biografie individuali e culturali, raccontano di soggetti politici che spesso non inseguono soltanto il lavoro ed un documento: hanno progetti che le letture banalizzanti della migrazione occultano e rendono negletti.

MH
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