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Alessandra Sciurba

Mediterranean Hope: un progetto in atto contro la logica delle frontiere e degli Hotspot (di Alessandra Sciurba)

È una limpida mattina di febbraio sull’isola di Lampedusa. In uno dei bar di Via Roma ascolto il racconto di Francesco Piobbichi, di Mediterranean Hope, su un progetto concretamente rivoluzionario, ancora troppo poco conosciuto in Italia, che le Chiese Evangeliche e la Comunità di Sant’Egidio stanno portando avanti ormai da mesi.

In moltissimi appelli, manifestazioni, mobilitazioni di diverso tipo, quello dei “canali umanitari” è diventato da tempo un concetto chiave, una parola d’ordine: fare arrivare i migranti provenienti da zone di violenza e conflitto senza far loro attraversare la violenza delle frontiere proibite d’Europa, esternalizzate o interne che siano. “Percorsi di arrivo garantito”, li chiamava la Carta di Lampedusa: l’unico modo per sottrarre i profughi ai trafficanti, per proteggere le loro vite molto prima di ridurli a naufraghi da salvare, o da lasciare annegare nel Mediterraneo. L’unico modo per programmare realmente un’accoglienza dignitosa e razionale, e per rispettare la vita e le scelte delle persone in movimento, peraltro permettendo loro di arrivare ancora con i loro soldi in tasca, e da soggetti di diritto liberi.

Il 25 Dicembre del 2015, dal Libano, è arrivata la prima famiglia di rifugiati siriani portati in Italia dal Progetto Mediterranean Hope. È la famiglia di Falak, una bambina affetta da un retinoblastoma che ha urgente bisogno di cure. Con lei sono arrivati la mamma, il papà e un fratellino. Gli attivisti del progetto sono entrati in contatto con loro grazie alla segnalazione di un’associazione di Lesbo. Perché è così che Mediterranean Hope funziona: attivando una rete di solidarietà che procede dall’individuazione delle persone da trasferire in sicurezza fino alla loro accoglienza in Italia. In questo processo le associazioni laiche e religiose dei territori di transito hanno un ruolo centrale.

“Il coinvolgimento della società civile è il nodo fondamentale del nostro agire e l’orizzonte a cui tendere per rendere progetti come questo pienamente replicabili”, dice Piobbichi. “Si tratta di consolidare delle ‘buone prassi’ che facciano quello che i governi non fanno, e che vadano ben oltre l’oggettivazione dei profughi in quanto merce nell’industria dell’accoglienza, procedendo dalla categorizzazione delle persone alla loro considerazione come soggetti di diritto’.

Questi corridoi umanitari “dal basso” dimostrano come si possano invertire le risorse esistenti in un sistema di immigrazione sicura e solidale, che non necessita del dispiegamento sicuritario della difesa delle frontiere, o di quello umanitario dei vari centri di raggruppamento e ‘accoglienza’ (sempre più detentiva), adottati invece dalle istituzioni europee come unica soluzione possibile di fronte a quella che viene costantemente definita come la ‘crisi dei rifugiati’.

Quello che Mediterranean Hope sta costruendo è un rapporto dialettico con lo Stato italiano, le sue ambasciate, e con le autorità dei paesi di transito (fondamentali per dare il via libera ai trasferimenti permettendo ad esempio il passaggio dei chek point interni), mettendo concretamente in atto una politica di accoglienza capace di guardare ben oltre e ben prima della frontiera come luogo di violenza e selezione, e costruendo anche relazioni fondamentali con associazioni presenti sull’altra sponda del Mediterraneo.

Rapporti e negoziazioni ben diverse da quelle messe in atto dalle istituzioni europee e nazionali quando siedono ai tavoli con i dittatori, come accade nel solco dei processi di Rabat e di Karthoum: qui la priorità è la vita e la dignità delle persone, e non gli accordi economici e le strategie geopolitiche.

I migranti individuati dal Progetto entrano in Italia con un visto umanitario territoriale, che permette di fare arrivare in sicurezza le persone vulnerabili (e chi non lo è quando si trova in un campo profughi a latere delle zone di guerra?), secondo una clausola prevista dallo stesso Accordo di Schengen, che ha permesso di stipulare un protocollo tra le Chiese Evangeliche e la Comunità di Sant’Egidio con i Ministeri dell’Interno e degli Esteri del governo italiano. L’obiettivo a breve termine è quello di portare in Italia 1000 persone in due anni. Quello più ampio è dimostrare come un simile modello sia attuabile, e quindi replicabile in tutta Europa. I paesi da cui fare partire i migranti verso l’Italia sono il Libano, il Marocco e l’Etiopia, selezionati tenendo conto dei percorsi migratori contemporanei. Non si tratta di un sistema parallelo a quello del Resettlement previsto da operatori istituzionali come l’Unhcr. Le liste delle persone che entreranno in questi canali umanitari dal basso comprendono anche migranti non ufficialmente in attesa di essere ricollocate.

Una volta in Italia, chi è arrivato con il visto umanitario territoriale può chiedere protezione internazionale: si tratta di una via, finalmente legale, per poter chiedere asilo in sicurezza, senza rischiare la vita un’altra volta in viaggi pericolosissimi, senza diventare vittime di un traffico di esseri umani che sta arricchendo, grazie alle politiche europee di chiusura delle frontiere, decine di organizzazioni criminali.

Sempre più profughi raccontano delle torture subite in Libia, dei rapimenti per chiedere riscatti alle famiglie rimaste in patria, delle botte fino a morire date a chi è già ferito, o malato, della paura che crea traumi indelebili, degli stupri sistematici subiti da tutte le donne.

Le mille persone che rientreranno nel progetto di Mediterranean Hope non subiranno tutto questo, così come non annegheranno cercando di salvare la propria vita. E una volta in Italia saranno accolte per un periodo congruo dalla comunità di sant’Egidio e dalle Chiese evangeliche, dimostrando anche in questo senso che un diverso modello è possibile.

“Si tratta di una battaglia politica agibile per tutte le associazioni rispetto ad ogni stato europeo”, continua Piobbichi: “in questo caso è stato fondamentale potere accedere ai fondi dell’8 per mille della Tavola Valdese e alle risorse della Comunità di Sant’Egidio, sia per il costo dei trasferimenti che per l’accoglienza, ma in futuro si possono convertire molte risorse al momento spese nel controllo delle frontiere e nella speculazione su un’accoglienza di massa che non funziona. Pensiamo invece a un’accoglienza diffusa, fatta da tante persone che si mettono a disposizione, come già accade in alcuni posti in Europa”.

Ogni parola di questa conversazione lampedusana contrasta con lo scenario che ci circonda: quello di un’isola tornata ad essere luogo di approdo, come prima del 2014 e di Mare Nostrum, ma stavolta senza “spettacolo della frontiera”. Perché l’implementazione del cosiddetto approccio Hotspot richiede in questo momento che i riflettori restino spenti. Forse perché nessuna delle attività che si svolgono all’interno del centro di Lampedusa appena riconvertito appare pienamente giustificabile da un punto di vista legale, e del resto l’intero sistema è delineato solo in testi senza alcun valore giuridico, letteralmente un’accozzaglia di ‘Decisioni’ e comunicati stampa della Commissione europea che hanno sempre più il tono di lettere intimidatorie indirizzate ai paesi frontalieri come l’Italia e la Grecia: “cambiate la legge per permettere il prelievo forzato delle impronte e la detenzione prolungata negli hotspot di chi rifiuta di farsi identificare” si legge negli ultimi documenti ufficiali dell’11 Febbraio che riguardano l’Italia.

E nel frattempo l’Italia, proprio a partire da Lampedusa, procede sperimentando. Nell’Hotspot della piccola isola la polizia ha il potere decisionale di stabilire in pochi minuti, attraverso la compilazione del ‘foglio notizie’ in cui si scrivono sommariamente le ragioni della migrazione delle persone riempendo un formulario a riposta multipla, chi è o meno richiedente asilo. Stando ai racconti di molti migranti, la manifestazione della volontà di chiedere protezione non incide sulla risposta che verrà segnata sul foglio-notizie, quando si appartiene a paesi che vengono considerati terzi sicuri (nonostante il fatto che, come ha ribadito di recente il Prefetto Morcone in una circolare ministeriale, l’Italia non ha alcuna lista di ‘paesi terzi sicuri’, perché questo è un principio incompatibile con la ratio stessa del diritto d’asilo per come è definito dall’art. 10 della Costituzione italiana). La conseguenza di venire definito un ‘migrante economico’ dalla polizia scientifica attiva negli hotspot, come accade a Lampedusa, si concretizza in un decreto di respingimento differito, con intimazione a lasciare il territorio italiano in 7 giorni, consegnato all’uscita dal centro.

È vero che in ogni momento questi migranti, anche col decreto in mano, potrebbero in linea teorica inoltrare una richiesta di protezione una volta raggiunta l’Italia, ma, anche qualora riuscissero a farlo, rischiano la detenzione in un Cie per tutta la durata della procedura, l’esclusione dal sistema di accoglienza, nonché un pronto diniego alla loro richiesta di protezione, se valutata in procedura accelerata e considerata come ‘manifestamente infondata’.

All’interno degli hotspot, quindi, è previsto che un atto di polizia incida profondamente e sistemicamente sulla vita di migliaia di richiedenti asilo. Ma non esisteva un decreto legge del 2008 che chiariva come la polizia non avesse di fatto nessuna competenza nell’entrare nel merito di simili questioni? Ma non esiste una Convenzione del 1951 sullo status di rifugiato, completata da un Protocollo scritto una quindicina di anni dopo, che afferma come il diritto di asilo sia un diritto soggettivo perfetto azionabile da chiunque indipendentemente dalla sua origine nazionale? E questa Convenzione, ratificata da tutti i paesi occidentali, non è a fondamento di ogni norma sull’asilo che si trova nei successivi testi di legge europei e internazionali?

Evidentemente non importa. Ancora una volta, ma oggi forse più che mai, la prassi nella ‘gestione’ delle migrazioni eccede la normativa e la precede nel senso che essa verrà probabilmente presto cambiata, su imposizione dell’Unione europea, per permettere e legittimare una sempre più massiccia violazione di quei diritti vuotamente affermati come universali all’indomani degli orrori dei nazifascismi del Novecento.

Eppure, ascoltando le parole di Francesco Piobbichi, così come leggendo quelle dei tanti attivisti che in tutta Europa stanno opponendo decine di pratiche solidali e coraggiose alla violenza della politica istituzionale, è evidente che si tratta solo di una scelta arbitraria dettata da ragionamenti che nulla hanno a che fare con l’urgenza umanitaria o la sicurezza dei ‘cittadini’.

Penso a chi in Sicilia sta cercando di recuperare e reinserire nelle procedure di riconoscimento della protezione internazionale ogni singolo migrante che abbia ricevuto un decreto di respingimento negli hotsposts solo perché proviene da un paese indebitamente ritenuto ‘terzo sicuro’.

Penso all’associazione spagnola Proactiva Open Arms, che grazie a uno straordinario crowfunding e all’ostinazione coraggiosa dei suoi attivisti sta riuscendo a salvare centinaia di profughi, specialmente bambini, nel Mare Egeo che i nuovi rapporti tra Unione europea e Turchia sembrano invece avere condannato a morte certa.

E in questo senso il progetto di Mediterranean Hope va ancora un passo oltre perché agisce prima della frontiera, annienta i suoi effetti di morte, evita in partenza che chi ha già sofferto la violenza dei conflitti diventi merce nelle mani dei trafficanti, e poi naufrago da salvare, o respinto sulla base di cifre prestabilite tra chi deve o non deve essere accolto come richiedente asilo.

Nel Frattempo, però, Lampedusa, continua a funzionare da macchina di produzione di decreti di respingimento, e i ragazzi partiti dall’isola, mentre Francesco ed io parlavamo, saranno presto in giro con questo solo foglio in mano, dopo essere stati abbandonati in chissà quale periferia dell’agrigentino, secondo le ultime prassi adottate dalla polizia. Nell’hot spot, intanto, restano ancora decine di minori di fatto sequestrati senza alcuna base giuridica perché, sembrerebbe, mancano posti di accoglienza per loro in Sicilia, e molti altri trattenuti ben oltre le 72 ore previste.

Qualche giorno fa un articolo de La Repubblica online pubblicava una serie di calcoli oggettivi che dimostrano l’inevitabile collasso che questo sistema messo in atto in fretta e furia, fuori da ogni logica e da ogni legge, subirà di fronte al probabile incremento degli arrivi nei prossimi mesi di Primavera ed Estate.

Il fatto è che ciò che verrà dopo rischia di essere ancora peggiore, guardando a realtà come quelle dei paesi del nord Europa, dove ormai i voli di rimpatrio verso paesi L’Afghanistan o la Somalia sono diventati una normalità assoluta.

Ma la soluzione, allora, quale sarebbe?

Quella che Mediterranean Hope sta attuando e che da tante parti d’Europa associazioni e movimenti continuano a chiedere: percorsi di arrivo legali e sicuri, accoglienza diffusa, e costruzione di una cultura della solidarietà, invece che della paura e della criminalizzazione. Oltre che ovviamente, la costruzione di legami con la società civile (e non con i dittatori) dei paesi di origine e transito dei migranti che mettano al centro le persone invece che l’economia e i rapporti di forza geopolitici, in nome dei quali si tollerano omicidi come quello di Giulio Regeni, o stragi come quelle dei curdi in Turchia, e si continua ad alimentare le guerre in atto, comprando petrolio e vendendo armi, se non partecipando direttamente ai bombardamenti.

L’Europa ha forse ancora una scelta e un margine di azione possibile per uscire dalla crisi sociale e politica che la sta letteralmente disintegrando, ma la possibilità di questa scelta e di questa azione sembra porsi sempre di più al di fuori e in conflitto rispetto a queste istituzioni europee.

MH
MH
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