Un’alternativa c’e’, i corridoi umanitari

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Francesco Piobbichi – NEV

Beirut, Libano (NEV), 15 giugno 2016 – Avevo lasciato Lampedusa con l’immagine delle due donne ustionate dalla benzina che per farsi forza si stringevano la mano l’una con l’altra dentro l’ambulanza al Molo Favaloro. Ho lasciato l’isola con ancora nella mente le persone che appena scese dalle imbarcazioni della capitaneria di porto baciavano la terra ringraziando Dio. Avevo visto le donne ustionate arrivare per prime, avvolte con teli bianchi e seminude, dopo di loro erano arrivati gli altri, a centinaia, vestiti tutti uguali con le tute blu della petroliera che li aveva salvati. Pensavo a loro mentre l’aereo mi portava a Beirut, pensavo a loro mentre sotto di me vedevo il mar Mediterraneo, spietato, che inghiotte migliaia di persone ogni anno. Beirut è lontana da Lampedusa; sono pochi i libanesi che conoscono l’isola, ancora meno la conoscono i profughi, quelli a cui facciamo le interviste per accedere ai corridoi umanitari.

I pochi siriani che in questi anni ho visto a Lampedusa arrivano senza valigia, bagnati, scalzi. Il rapporto tra salvati e salvatori non è mai paritario, i primi si affidano ai secondi, spesso perdendo la propria dignità. Qui in Libano non è così: chi vuol venire in Italia attraverso i corridoi umanitari esercita un diritto, ha la possibilità di scegliere che tipo di percorso fare, cioè se rimanere in Libano in una condizione di estrema vulnerabilità, con il futuro che mangia la speranza, oppure se provare a fare il salto, lasciandosi tutto alle spalle e cercare una nuova vita. Scelta non facile, comunque la si pensi.
Li vedo piangere prima di partire, come probabilmente facevano i nostri nonni prima di andare nelle Americhe, salutarsi e abbracciarsi con vicini e parenti, ne percepiamo le paure, comprendiamo, evitiamo giudizi.

Qui capisco che guerra e miseria viaggiano assieme, avvolgono i campi dei profughi siriani, di quelli palestinesi, le mansarde e gli scantinati in un recinto invisibile che non lascia molte speranze. In Libano si muore perché non c’è accesso alle cure, si muore perché non c’è sanità pubblica come in gran parte del Medio Oriente. Si muore perché non si hanno soldi, ci si ammala perché non c’è prevenzione. Donne e bambini sono i più vulnerabili. Entri nelle case o nelle tende dove ti attende uno sguardo curioso, alcuni sorridono, altri il sorriso lo hanno perso o non lo hanno mai conosciuto. E’ impossibile in questo lavoro sfuggire al dolore, impossibile non raccontarlo, a meno che non si perde la sensibilità.
Ci vorrebbe un nuovo piano Marshall. Mastico rabbia quando sento dire “aiutiamoli a casa loro”, e non perché questa frase non abbia significato, ma perché questi aiuti non ci sono. Il mese scorso abbiamo fatto pochi passi tra le prime tende di un campo e siamo stati travolti dalla miseria e dalle malattie. E’ in questo contesto che sale il senso di impotenza, della nostra debolezza. Ad una giovane mamma siriana, che stava morendo dentro una tenda, non abbiamo potuto fare altro che darle qualche decina di dollari per farla tornare a morire nel suo paese: per lei la spesa della chemioterapia era insostenibile. La guerra l’ha fatta fuggire da casa, la morte ce l’ha riportata. In Libano comprendi perché questa umanità arriva a Lampedusa, perché tanti uomini e donne rischiano la vita per se stessi e per i loro bambini.

Capisco adesso cosa vuol dire “non abbiamo paura di morire in mare perché siamo già morti sulla terra”. Una frase questa che ho sentito dire nella foresta di Ceuta e Melilla, a Lampedusa e qui in Libano.
Dopo la strage a Lampedusa del 3 ottobre del 2013, la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) con il Progetto Mediterranean Hope ha deciso di lavorare per dare una risposta concreta a questa grande tragedia che avvolge il nostro tempo. Due anni dopo, con i Corridoi umanitari è riuscita a dimostrare che un’alternativa c’è. Ora è arrivato il momento di passare dalla sperimentazione portata avanti dalla società civile ad una politica strutturale da parte dei Governi europei.

MH
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