L’Odissea del 3 novembre – Cronaca di un naufragio

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di Tommaso Tamburello, volontario dell’Osservatorio di Mediterranean Hope a Lampedusa

Sono le 10:30 di mattina di lunedi 5 dicembre. Piove, quando nella chiesa di San Gerlando di Lampedusa si svolge la cerimonia di commemorazione per le vittime del naufragio avvenuto fra il 2 e il 3 novembre, al largo delle coste libiche. Erano partiti da Tripoli 147 uomini, donne e bambini, originari per la maggior parte del Camerun, della Guinea, della Costa d’Avorio e del Mali, salpati col mare in tempesta e un’imbarcazione precaria. Solo 27 sono sopravvissuti a quella notte, 23 di loro partecipano alla cerimonia per celebrare il ricordo dei loro compagni di viaggio, parenti, amici e sconosciuti, deceduti in mezzo al Mediterraneo: gli altri 4 superstiti sono donne, le uniche donne sopravvissute alla tragedia, e sono state già trasferite in un’altra struttura in Sicilia. Insieme a questi 23 giovani e coraggiosi uomini africani, partecipano alla cerimonia Don Carmelo, il parroco, e parte della società civile di Lampedusa: alcuni cittadini, i membri del Forum Lampedusa Solidale, gli operatori di Mediterranean Hope e di altre realtà che lavorano sull’isola.
I portavoce del gruppo di superstiti si chiamano Stephane e Steve, camerunensi di 26 e 37 anni, la cui attitudine e il modo in cui parlano francese fanno intendere che sono persone istruite (Stephane è laureato in Logistica all’università di Douala, in Camerun). Avevamo conosciuto Steve e Stephane pochi giorni prima, quando nel corso delle sessioni di Internet Point che si svolgono nel nostro ufficio avevamo avuto modo di scoprire che erano entrambi reduci dal naufragio avvenuto appena un mese addietro. Quando gli abbiamo chiesto se ricordassero i nomi di alcune delle vittime e se erano disposti a raccontarci la loro storia hanno accettato subito senza esitazione; ci siamo accordati quindi per rivederci il giorno seguente per una breve intervista. Quello che ne è uscito sono quarantacinque minuti di narrazione straziante; la storia di uomini, donne e bambini a cui, nel giro di appena 24, ore il destino ha inflitto tutte le piu atroci sofferenze che si possano riservare ad un essere umano nell’arco di tutta una vita.

Esiste un antefatto al racconto di questo viaggio: è la storia di un altro viaggio, importante per capire le dinamiche di quello che è successo dopo. Il protagonista di questo antefatto è Stephane e la sua storia inizia esattamente un mese prima del naufragio, la notte del 3 ottobre, quando si è imbarcato per la prima volta dalle spiagge di Tripoli per raggiungere la Sicilia. Le condizioni di partenza erano le stesse identiche che si sarebbero verificate un mese più tardi, quelle condizioni in cui purtroppo sono costrette a partire, sotto la coercizione delle armi, migliaia di persone ogni mese: mare agitato e battello perforato in più punti. Quella notte il gommone non percorse molte miglia dalla costa in quanto inizió ad imbarcare acqua fin da subito, nonostante i ripetuti sforzi di Stephane e degli altri uomini a bordo di svuotare, tramite secchi, l’acqua dal gommone. Sforzi che, come riferisce Stephane, non hanno impedito il naufragio e la morte di undici persone, nello specifico di 8 donne, 2 neonati e un uomo. Il peschereccio libico che all’alba del giorno dopo ha avvistato in mare i superstiti ha impiegato cinque ore per tirarli a bordo con le reti; i migranti sono stati successivamente ricondotti a riva dove ad attenderli si trovava già la polizia d’immigrazione, e l’inferno di una cella libica. Come è ormai noto, fame, sete e percosse quotidiane con mazze e bastoni sono ció che contraddistingue il soggiorno di queste persone in una qualsiasi carcere del paese, dove al pari di tutti gli altri stati del Nord Africa è fortissimo e radicato il razzismo e il disprezzo per i sub-sahariani. Dura tre settimane la permanenza di Stephane in prigione, perché con l’aiuto di altri detenuti riesce ad effettuare una rocambolesca evasione e a sfuggire alle pallottole delle guardie carcerarie, al contrario di ciò che accade a due dei suoi compagni, che rimangono a terra colpiti. Stephane riesce a raggiungere l’abitazione che aveva fatto da base per la prima partenza e dove si trovava il suo coxeur, nome con cui ci si riferisce ai trafficanti che organizzano i viaggi in mare. Lí scopre che il suo nome era già stato inserito nella lista delle persone a cui era riservato un posto sul battello dell’imminente prossimo viaggio.
La sera del 2 novembre, all’arrivo sulla spiaggia, Stephane rivive gli identici drammatici momenti della prima partenza, che andró fra poco a raccontare: il mare mosso, il battello già perforato che imbarcava acqua non appena posato in mare e le armi dei libici puntate sui partenti, allo scopo di scoraggiare ogni tentativo di rinuncia a quello che sembrava l’avviarsi verso una morte certa e orribile. Stephane afferma: «l’esperienza che ho acquisito dal primo viaggio è ció che mi ha permesso di salvare almeno qualche vita umana: durante la prima traversata, nel mare in tempesta, è accaduto che gli uomini finivano per schiacciare le donne, più deboli, mentre l’imbarcazione impazzita sballottava le persone da una parte all’altra. Otto donne sono morte in questa maniera». Questa esperienza ha fatto sí che durante la traversata in mare del 2 novembre Stephane avesse la freddezza di dirigere le operazioni a bordo, innanzitutto facendo spostare tutte le donne e i bambini da un lato per evitare che finissero schiacciati da un centinaio di uomini più pesanti di loro, e poi riuscendo a creare delle zone di vuoto in prossimità dei buchi che si erano creati nel battello, al fine di riuscire a svuotare l’acqua più rapidamente e in maniera più efficace. Purtroppo quando i danni all’imbarcazione sono diventati troppo ingenti Stephane e gli altri, stremati, non sono riusciti ad impedire che essa imbarcasse troppa acqua e si spezzasse, causando cosí la morte della maggior parte dei viaggiatori. Fortunatamente il loro lavoro incessante di drenaggio dell’acqua ha fatto sí che la barca progredisse abbastanza da permettere poi l’avvistamento da parte di un peschereccio italiano e il conseguente arrivo dei soccorsi, ormai nella mattinata del 3 novembre.

Tornando a quella sera del 2 novembre, tenteró di raccontare fin dal principio l’odissea di Steve, Stephane e dei loro compagni, cosí come è stata raccontata a noi e con le loro stesse parole, essendo queste una testimonianza straordinaria di eventi tragici che troppo spesso accadono di questi tempi, e che troppo spesso non vengono degnati di una narrazione e di un’attenzione adeguata.
Nel nostro ufficio di Lampedusa è Steve che comincia a raccontare: «La partenza era prevista per il 2 novembre. Già il giorno prima ci avevano trasferiti da un ghetto di Tripoli ad una grande casa vicino al mare, dove erano montate delle tende. Eravamo 55 persone, i passeggeri che andavano a completare il gruppo d’imbarco previsto per il giorno seguente; ci dissero che il gruppo doveva essere formato da 110 persone, ognuno dovendo pagare fra gli 800 e 1500 euro per salire a bordo» Alla mia domanda se ad un prezzo più alto corrispondesse un qualche tipo di privilegio, per esempio maggiori scorte di acqua e cibo, o un giubbotto salvagente, Steve mi risponde «No, nessun privilegio, tutto quello che hai in tasca glielo dai, e non ci è stato fornito nemmeno un salvagente. Successivamente, in serata, si sono aggregate al gruppo 10 donne, con i bambini, e abbiamo passato la notte. All’una di pomeriggio del giorno seguente sono venuti les arabes e hanno portato via le donne, mentre a noi ci hanno caricato su un grande camion con il cassone coperto, insieme ad altri che alloggiavano in un’altra casa lì vicino. Abbiamo impiegato circa 10 minuti per arrivare alla spiaggia prevista per la partenza e al nostro arrivo ci hanno chiuso dentro delle toilettes montate alla buona con delle tavole, le stesse che poi utilizzeranno per assemblare la barca. Sulla spiaggia abbiamo constatato che il gruppo era costituito da circa 160 persone, di cui almeno 20 donne, molte incinte e con i bambini a carico. I coxeurs erano in 4. Alle 18 hanno cominciato ad assemblare l’imbarcazione e noi li abbiamo aiutati, abbiamo gonfiato i tubolari e fatto il pieno di carburante. Completato l’assemblaggio hanno cominciato a far salire tutti sulla barca, operazione complicata date le condizioni del mare. È a quel punto che ci siamo resi conto che la barca era già perforata in due punti, a prua e a poppa». Interrompo Steve per chiedergli se lo avessero fatto notare ai coxeurs. Lui mi risponde che sì, avevano comunicato ai libici le condizioni della barca e loro in tutta risposta hanno acceso il motore e puntato le armi, intimando a tutti di salpare e rassicurandoli del fatto che dopo mezz’ora che fossero partiti il mare si sarebbe calmato. Alcuni di loro hanno provato a fuggire, cadendo sotto le immediate raffiche di mitra dei libici. Il racconto qui comincia a farsi via via sempre più cupo, insostenibile: «Tutti erano armati, avevano armi da guerra, ci hanno detto che se avessimo provato a rientrare verso la costa ci avrebbero ucciso tutti. Hanno sparato a quelli che provavano a fuggire. Prima di partire inoltre hanno violentato la gran parte delle donne, le portavano nei campi vicino alla spiaggia e le violentavano una ad una, questo è quello che poi loro ci hanno riferito».
Il gommone riesce infine a partire, prendendo il largo intorno alle dieci di sera. «Verso le due e mezza di notte eravamo già in mezzo al Mediterraneo e la barca versava ormai in condizioni critiche; cominciava ad affondare nonostante il nostro continuo lavoro di svuotamento con i secchi. Ci siamo resi conto che il telefono satellitare che ci avevano dato non era provvisto del numero della Croce Rossa italiana, ci siamo quindi messi in contatto con Mohammed, il nostro coxeur, per chiedergli il numero tramite messaggio. Una volta che ci siamo riusciti a mettere in contatto con la Croce Rossa abbiamo comunicato le nostre coordinate. Erano ormai forse le tre e mezza e loro ci risposero che nel giro di un’ora al massimo ci avrebbero soccorso, eravamo quindi ancora pieni di speranza. Continuavamo a chiamare e continuavano a dirci che sarebbero arrivati, fino a che alle sei del mattino ci ritrovavamo ormai con l’acqua fino al ginocchio, e la barca si ruppe anche nella parte centrale…Cominciavamo a perdere la speranza e proprio in quel momento un’onda particolarmente violenta – il mare era ancora agitatissimo – ha ribaltato in mare 40 persone, forse di più, tutte insieme…Tutte le donne, tutte le donne con i bambini…solo 4 donne sono rimaste a bordo da quel momento» Ecco, solo a questo punto del racconto questi due uomini forti e coraggiosi, fino a quel momento estremamente lucidi e risoluti nel ricordare quel viaggio infernale, hanno vacillato. Per un attimo si ammutoliscono, e l’immagine di quel momento orribile riaffiora in superficie con tutta la sua forza visiva; riesco quasi a vederli io, riflessi nei loro occhi, quei 4o corpi di donne e bambini sbalzati in acqua, nella completa oscurità notturna del mare aperto e in tempesta. Istintivamente mi torna in mente il racconto di un ragazzo del Gambia di qualche giorno prima, quando mi diceva del suo viaggio da Agadez fino in Libia: durante la traversata del deserto, a bordo di un pick-up su cui viaggiavano in 20, ogni tanto qualcuno veniva sbalzato fuori dalla vettura a causa di una duna o di una buca, e si ritrovava nel bel mezzo del deserto del Sahara, condannato a una morte certa e atroce. Stephane si copre brevemente il volto con le mani, e Steve riprende a raccontare:«E poi ci ha cominciato a bruciare la benzina, la benzina che fuoriusciva dalle taniche e dal motore». Mi mostrano le bruciature che hanno sulle caviglie, sulle cosce e sull’inguine: terribili segni lasciati sulla pelle da quell’acido letale che è composto da benzina e acqua salata. «Ci sono stati alcuni che non sopportavano più il dolore: si sono buttati in mare, uccidendosi, pur di non sentirlo più. A quel punto il motore era andato, era il vento che ci portava e abbiamo continuato ad avanzare così, soffrendo per le bruciature; poi alle nove di mattina è uscito il sole e abbiamo visto degli uccelli, allora ci è tornata un po’ di speranza. Verso le dieci abbiamo visto una grande barca in lontananza, speravamo che ci avessero visto e abbiamo continuato a farci portare dal vento e dalla corrente, ma la nave non si muoveva. Eravamo ormai rimasti forse in 60 e il mare continuava ad essere molto mosso. Nel frattempo ha cominciato a manifestarsi in tutti noi un’enorme stanchezza, e l’ipotermia. Dalle 10 alle 12, quando ci hanno soccorso, molti sono morti così, di freddo. Quelli aggrappati ai tubolari cadevano direttamente in mare, dato che le gambe con cui si tenevano erano ormai completamente rigide; coloro che sapevano nuotare e che riuscivano a muoversi risalivano a bordo, gli altri annegavano.Battevamo dei colpi sulle ginocchia di quelli che non si muovevano più. Moltissimi sono morti così… Poi di colpo il vento ha deviato la nostra direzione, ed è là che la grande nave bianca ha cominciato a muoversi verso di noi. Siamo giunti in prossimità di essa e siamo riusciti a leggerne il nome, mi sembra di ricordare che si chiamasse Trenty Napoli, un peschereccio. Ci hanno lanciato delle corde per salire a bordo».
A quel punto si era fatto mezzogiorno. Dopo quattordici ore di traversata e di intemperie, il gruppo, che inizialmente contava 147 passeggeri, si era ridotto a 30. Nel tentativo di salire a bordo del peschereccio altre tre persone sono morte: essendo troppo deboli per arrampicarsi sulla corda sono cadute in acqua, dove la corrente e le onde li hanno travolti, affogandoli. Di lì a poco l’arrivo della nave di Frontex che ha provveduto a caricare i superstiti, a rifocillarli con acqua e merendine energetiche e a medicarli delle gravi ustioni causate dalla benzina.
Durante le operazioni di recupero dei corpi in acqua, i sommozzatori di Frontex hanno ritrovato due donne ancora in vita che erano state sbalzate in acqua intorno alle sei di mattina. Incredibilmente, sono sopravvissute nel mare gelido per ben sette ore, restando aggrappate ai cadaveri galleggianti; una di loro racconterà in seguito di essere rimasta per ore accanto al corpo fluttuante senza vita del suo bambino, prima che la corrente lo trascinasse altrove, lontano da lei. Quando domando ai ragazzi se qualche bambino fosse sopravvissuto, loro scuotono la testa, affermando in maniera categorica che nessun bambino sarebbe potuto sopravvivere a quel viaggio.
I superstiti sono stati successivamente portati a Lampedusa, dove hanno ricevuto cure mediche e sostegno psicologico, nell’attesa di essere trasferiti in Sicilia.

Tornando all’inizio di questa storia, la mattina del 5 dicembre si svolge la cerimonia per ricordare i defunti del naufragio. Il testo che i ragazzi hanno scritto e che Stephane legge in chiesa per onorare la memoria dei morti è toccante; in esso, fatto piuttosto insolito per questo tipo di situazioni, i superstiti si appellano alle istituzioni religiose e al Governo italiano affinchè sia avviata un’inchiesta che faccia luce sulle responsabilità di tutti quei decessi. Ci si appella affinché sia avviata un’indagine e un processo penale contro i trafficanti di esseri umani, che intascano decine di migliaia di euro ogniqualvolta spediscono centinaia di persone incontro a morte certa, a bordo di quelle che sono vere e proprie trappole mortali. Stephane si rivolge poi ai suoi compagni defunti: «Guerrieri, insieme a voi abbiamo combattuto; saremmo potuti morire tutti, ma Dio ha voluto che sopravvivessimo per testimoniare quanto è accaduto. Sappiate che non siete stati deboli quando, dalle 3 alle 6 di quel mattino, la situazione è precipitata. Raramente ho conosciuto persone tanto coraggiose, la cui fierezza brilla come un sole tempestoso; e la Storia vi renderà giustizia».
Alla fine del discorso, un appello e un avvertimento rivolto ai loro fratelli africani:«Approfittiamo di questa occasione per mettere in guardia i nostri fratelli dal pericolo di questo viaggio, perché ogni anno l’Africa perde troppi uomini e donne in questo esodo. E tutto si aggraverà se noi Africani non prenderemo coscienza di questi rischi.»
La cerimonia si conclude poi con l’enunciazione dei nomi delle vittime, non tutti purtroppo, ma solo quelli che i sopravvissuti sono riusciti a ricordare e trascrivere su di un foglio, una quarantina in tutto. Un sofferto applauso e un minuto di silenzio, tutti in cerchio nel piazzale antistante la chiesa, chiudono questa mattinata di cordoglio.
Questa storia di dolore, morte e crudeltà purtroppo è soltanto una delle tante che costantemente si ripetono a due passi dalle nostre coste; questi 27 guerrieri però ce l’hanno raccontata la loro storia, che è anche e soprattutto una storia di coraggio, di forza, di dignità, di amore e di speranza: la speranza che la loro tragedia non finisca nell’oblio e la speranza che il loro impegno affinchè esso non avvenga possa essere di esempio e di aiuto a chi ha vissuto lo stesso orrore, e a chi nel futuro lo vivrà. La speranza, infine, che la narrazione del 3 novembre contribuisca a svegliare le coscienze sul fenomeno migratorio degli ultimi anni, le cui conseguenze costituiscono una delle più grandi tragedie del nostro tempo.

Rimandiamo in seguito il link della pagina Facebook aperta e gestita dai superstiti, «Les victimes du 3 novembre en Méditerranée»:

 

https://www.facebook.com/Les-victimes-du-3-novembre-en-mediterran%C3%A9e-1346548255390045/?fref=ts

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MH
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