Roma (NEV), 15 marzo 2017 – Nei giorni scorsi, il Royal Ontario Museum di Toronto ha organizzato una serie di incontri legati a una mostra di Isaac Julien. Una delle opere esposte, “Western Union: Small Boats”, è nata sull’isola di Lampedusa. Alberto Mallardo – operatore di Mediterranean Hope presso l’Osservatorio sulle migrazioni aperto a Lampedusa dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia – era sul posto, ed il 7 marzo è intervenuto a un incontro pubblico sulle migrazioni patrocinato dall’Istituto Italiano di Cultura. Di seguito pubblichiamo il suo “sguardo” sull’esperienza canadese in materia di migrazioni.
La settimana scorsa, nella gelida Toronto, in Canada, ho portato una testimonianza dell’esperienza fatta con Mediterranean Hope. In un paese che oggi molti considerano esempio di accoglienza e tolleranza, sono partito dai momenti più drammatici della storia recente di Lampedusa e ho provato a ripercorrere alcuni dei cambiamenti nel discorso e nelle politiche europee sulle migrazioni mantenendo in parallelo uno sguardo sulle esperienze di viaggio di chi ce l’ha fatta. Sullo sfondo dell’intervento al Royal Ontario Museum di Toronto, l’esternalizzazione nella gestione delle frontiere e le alternative possibili, come il progetto dei “corridoi umanitari” promossi dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, dalla Tavola Valdese e dalla Comunità di Sant’Egidio.
E proprio l’eco dell’esperienza nostrana dei “corridoi umanitari” è risuonato familiare e vicino in un paese che dall’insediamento del governo liberale di Justin Trudeau (novembre 2015) ha accolto oltre 40.000 persone, prevalentemente siriane, grazie al programma misto di sponsorizzazioni private e governative.
L’approccio canadese alle migrazioni non è però nuovo, alle migrazioni non è però nuovo, dato che il programma di reinsediamenti fu lanciato nel 1979, dopo la crisi in Vietnam, quando in soli due anni circa 35.000 persone provenienti dal Vietnam stesso, dalla Cambogia e dal Laos beneficiarono di sponsorship private per entrare nel paese dell’acero rosso. Negli anni successivi, il programma continuò a funzionare permettendo a migliaia di persone di raggiungere in sicurezza il Canada. Allora come oggi, gli sponsor erano gruppi di privati cittadini o organizzazioni, autorizzati dal governo ad accogliere i rifugiati. Molti sponsor rappresentavano comunità di fede mentre altri includevano direttamente le comunità etniche già presenti in Canada.
Ad oggi sono 103 gli sponsor privati che durante il primo anno provvedono ad assicurare vito e alloggio, più un “pocket money” quotidiano; forniscono abbigliamento, mobili e altri beni di consumo; individuano interpreti in grado di aiutare i nuovi arrivati nelle prime fasi di integrazione; facilitano l’accesso ai servizi sanitari e scolastici e aiutano nella ricerca di un impiego. Negli ultimi 5 anni, circa 5.000 persone all’anno hanno beneficiato del programma, e dagli inizi più di 225.000 persone sono state supportate da questa iniziativa.
Il reinsediamento dei rifugiati attraverso sponsor privati ha permesso al Canada di rispondere più velocemente alle crisi umanitarie negli ultimi decenni, responsabilizzando direttamente la popolazione locale. Questo modello, infatti, ha favorito lo sviluppo di network di solidarietà sul territorio che hanno aiutato a rafforzare la coesione sociale e hanno favorito l’integrazione dei nuovi arrivati. Inoltre, i rifugiati arrivati attraverso questo canale sono riusciti, secondo le statistiche, ad integrarsi con maggiore rapidità proprio grazie alle relazioni dirette stabilitesi tra chi accoglie e chi è accolto.
L’esperienza canadese però ha mostrato anche alcuni punti deboli. Ad esempio non tutti gli sponsor si sono dimostrati preparati ad accogliere le persone cariche di aspettative che arrivavano in Canada. In altre occasioni, i rifugiati hanno sviluppato rapporti di dipendenza con i loro sponsor e al termine del primo anno non sono stati in grado di rendersi indipendenti, dovendo quindi accedere al sistema di welfare. Infine la scelta delle persone che hanno avuto modo di accedere al programma non sempre è sembrata equa e alcuni hanno sollevato dubbi sulla volontà di non reinsediare profughi provenienti dall’Africa sub-sahariana.
Certamente l’esempio canadese è un unicum anche per le caratteristiche geografiche del Canada, dato che sono poche le persone che riescono a presentare domanda d’asilo nel paese nord americano in modo autonomo. Ciò nonostante, in mezzo ai tanti disaccordi su come rispondere alle crisi migratorie globali, le sponsorizzazioni private, se utilizzate in modo trasparente e garantendo una collaborazione continua tra tutti i partner coinvolti, potrebbero incrementare in modo significativo le opportunità dei rifugiati di raggiungere in modo legale e sicuro i paesi del nord globale. Inoltre, in uno scenario caratterizzato spesso da egoismi nazionali, Trudeau può rappresentare il volto nuovo e accattivante di un paese multietnico che fin dalla prima colonizzazione ha fatto delle sue importanti e significative minoranze un punto di forza nelle proprie strategie economiche e demografiche.