Vivere e testimoniare la frontiera. Alcune conclusioni

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Paolo Naso, *Politologo, coordinatore di Mediterranean Hope – Programma Rifugiati e Migranti della FCEI

Alla fine di un convegno così ricco di analisi e di contributi, è difficile ricavare delle conclusioni che non siano la ripetizione di quello che già è stato detto molto bene. Mi soffermerò quindi su alcuni temi soltanto e sulle sfide che essi comportano per chi, come noi, opera “sulla frontiera” fisica o mentale, in quel luogo e in quello spazio che per definizione è affollato da “diversi” da noi che chiedono di entrare nel nostro territorio.

Per comodità di esposizione, indicherò alcuni problemi di cui abbiamo discusso in questi giorni e per ciascuno di essi proverò a delineare alcune possibili strategie di lavoro. Svolgerò questo esercizio valorizzando i contributi emersi in questi giorni e quindi facendo miei i tanti racconti, le proposte e le analisi che sono emersi.

  1. Il primo tema che mi pare si imponga di fronte a noi è che, quando si ragiona di immigrazione, l’emozionalità divorzia dalla razionalità. Intendo dire che uno dei problemi che tutti noi abbiamo di fronte, in Italia come in Europa o negli Stati Uniti, è che ragionando di immigrazione vengono meno i criteri di razionalità che dovrebbero orientare il confronto e il dibattito pubblico, ad esclusivo vantaggio di una emotività incontrollata che dà libero sfogo a pregiudizi e sentimenti non meditati né elaborati [Allievi e Dalla Zuanna]. Facciamo alcuni esempi: tutti sappiamo che la caduta della natalità media condanna alcuni paesi a un rapido invecchiamento della popolazione che sbilancia la piramide demografica. Società che invecchiano e che si contraggono al tempo stesso sono condannate alla crisi dei consumi, al tracollo del sistema pensionistico e all’impoverimento della dinamica sociale [Rapporto sulla popolazione 2007]. E’ questa una realtà assai evidente e immediatamente comprensibile che dovrebbe suggerire un atteggiamento “utile” di apertura agli immigrati [Ambrosini 2010], soprattutto in ragione della loro età media e del loro più alto tasso di natalità. Ma per un complesso processo psicologico e sociale, nel caso specifico degli immigrati il criterio di “utilità” passa in secondo piano rispetto alle emotività negative scatenate dall’incontro con gli immigrati. Questo processo determina anche delle percezioni false della realtà come quella, ad esempio in Italia, che fa immaginare un drammatico aumento degli immigrati mentre – dati alla mano – è assolutamente stabile una popolazione straniera “consolidata” che da anni è ferma attorno ai cinque milioni di persone [Idos Confronti 2017: Livi Bacci, Calzolaio]. Non solo. Si tratta di persone che lavorano con un tasso percentuale più alto degli italiani e che trovano lavoro in settori specifici non più interessanti per i nazionali: al caso macroscopico delle badanti [Ambrosini 2013] possiamo aggiungere quello del settore agropastorale, dell’industria pesante, dell’edilizia [Rapporto Fondazione Moressa 2017]. La domanda che dobbiamo porci è come possa verificarsi questo “divorzio” dalla ragionevolezza e persino dai criteri di utilità e come possa darsi una percezione così alterata da tradire la sostanza della realtà. La risposta è intuitiva e, nel caso italiano, si esprime con evidenza nella narrazione corrente degli sbarchi dei profughi sulle coste siciliane, presentati come un flusso massiccio, continuo, ingovernabile, epocale. Con una precisa intenzionalità, i profughi che arrivano sui barconi vengono confusi con gli immigrati “stabilizzati” che contribuiscono all’economia nazionale producendo un tasso di PIL che sfiora il 9% [Rapporto Fondazione Moressa 2017]; soprattutto si ricorre al linguaggio della “invasione massiccia” a fronte di cifre che non superano le 200.000 unità e che nel quadro di una vera politica europea di solidarietà e cooperazione, sarebbero facilmente assorbibili. Ma se la distorsione di fatti, numeri e dinamiche è in larga parte imputabili alle voci dominanti nel sistema dell’informazione, la domanda vera è cui prodest. La risposta, anch’essa intuitiva, all’impresa politica xenofoba che fa leva sulla crisi migratoria per raccogliere i consensi dei ceti popolari deprivati e della classe media sempre più insicura. Il meccanismo è quello dell’immigrato “espiatorio” [Naso] al quale addebitare la responsabilità della crisi, del degrado urbano, dello spaesamento e della competizione prodotti dalla globalizzazione [Rampini]. Il corollario politico di questo paradigma dell’immigrato “espiatorio” è che solo misure espulsive possono catarticamente ristabilire l’ordine e la sicurezza che sono stati violati. E’ una tesi semplificata e rozza ma, guardando alle scena europea e nordamericana costituisce la “narrazione vincente”, quella che determina il tono del dibattito pubblico [Manconi, Resta]. L’unica strategia di resistenza e opposizione a questo paradigma è quella che un tempo si definiva contro-informazione, togliendo però al termine ogni valenza complottistica e ribellistica. Nella società della comunicazione di massa, contro-informazione deve significare predisporre argomenti razionali ed efficaci, reti “della verità” che smentiscano la fabbrica della post-verità, raccontare più i migranti che le migrazioni, dando loro volto e concretezza.
  2. Dobbiamo prendere atto del fatto che siamo di fronte a un nuovo ciclo migratorio che impone di aggiornare le analisi sulle dinamiche delle migrazioni globali. Il sistema migratorio che l’Italia ha conosciuto negli anni ’80 e ’90, con uno o due decenni di ritardo rispetto ad altri paesi europei, si reggeva sull’equilibrio tra push e pull factors, tra spinte all’emigrazione e fattori di attrazione in alcuni paesi in una fase di espansione del mercato del lavoro [Sassen]. Per restare al caso italiano, è ciò che abbiamo sperimentato a partire dagli anni ’80, in un ventennio che ha letteralmente invertito la direzione dei flussi migratori che interessavano il Paese. Più recentemente e  in massima misura dopo il 2011, l’equilibrio tra push e pull factors si è spezzato e sono diventati assolutamente prevalenti i fattori di espulsione. L’offensiva dell’Isis, la crisi delle primavere arabe, il “fallimento” di paesi come la Somalia e la Libia, i conflitti etnici, etnico religiosi e civili in paesi come la Nigeria o il Mali, la violenza di regimi come quello eritreo hanno determinato un’area di eccezionale instabilità in cui ampi strati della popolazione civile hanno perso elementari diritti: dalla disponibilità dell’acqua alla libertà di espressione della propria fede religiosa, dalla protezione alla giustizia, dall’istruzione alla sicurezza. Il tutto aggravato da fattori economici che rendono assai problematica la distinzione tra “richiedente asilo” e “migrante economico” – lo abbiamo definito “migrante 2.0” [Naso 2015] – e costruiscono un nuovo soggetto migratorio complesso che è l’uno e l’altro insieme ma che le norme internazionali spesso non riconoscono come titolare dell’asilo o della protezione internazionale. Su questa materia le norme hanno l’età della Guerra fredda. Pensate in quel tempo e modellate su quel quadro geopolitico non colgono la novità e la gravità dei processi in atto che dovrebbero estendere la titolarità della protezione internazionale e non limitarla a specifici casi, spesso definiti sulla base della semplice provenienza nazionale [Vassallo Paleologo]. Più esplicitamente: ci sono tunisini o ghanesi che possono avere pieno titolo per ottenere l’asilo ma che l’applicazione delle norme esclude dalla protezione perché provenienti da paesi nei quali “si ritiene” non esistano le condizioni di persecuzione e rischio previste dalla Convenzione di Ginevra. Se questo è il quadro, quali proposte possono essere messe in campo? Una emerge da quanto abbiamo appena affermato: rivedere e allargare le politiche d’asilo e protezione. Ma non è sufficiente. La crisi geopolitica di cui abbiamo detto è troppo estesa per immaginare che le migrazioni possano essere l’unica via d’uscita alle violazioni dei diritti umani e alla fuga dalle guerre e dalla insostenibilità ambientale. In questo senso è drammatico che la parola d’ordine “aiutiamoli a casa loro” sia stata trivializzata da un uso politico strumentale e ipocrita e che, nei fatti, sia oggi improponibile. Eppure il tema  di un sostegno alle politiche di stabilizzazione politica e di sviluppo si pone con assoluta urgenza. E’ evidente che chi oggi invoca “aiutiamoli a casa loro” intende adottare politiche anti-migratorie e, alla prova dei fatti, lancia un appello privo di convinzione e strumentale. Pubblicità ingannevole, potremmo dire. Eppure il tema resta e, proprio chi lavora per l’accoglienza, ha il dovere  di affermarlo con forza: le politiche migratorie si costruiscono anche con misure da adottare nei paesi di provenienza dei flussi: solo così potranno costituire un elemento virtuoso e complementare – pensiamo alle rimesse – per ridurre i fattori di espulsione. Negare l’esigenza di una questione “a  monte dei flussi” è una grave errore che l’Europa o le Nazioni Unite potrebbe correggere mettendo mano a un piano complessivo che intrecci sinergicamente politiche migratorie e di stabilizzazione e cooperazione.
  3. La terza considerazione è che le migrazioni globali funzionano in un sistema di vasi comunicanti. Bloccando una via d’uscita aumenta proporzionalmente la pressione sulle altre. I recenti provvedimenti europei ne sono la prova lampante. In effetti, gli accordi con la Turchia hanno bloccato la rotta orientale che portava i migranti in Europa attraverso la porta balcanica. Ma l’effetto primario di questa scelta è stato l’aumento dei flussi attraverso la rotta centrale che parte dalla Libia e arriva nei porti siciliani, primo tra tutti quello di Lampedusa. In seguito agli accordi italiani con varie autorità libiche, sembra essere temporaneamente interrotta la rotta centrale dalla Libia ma, contro ogni aspettativa, sono ripresi i flussi dalla Tunisia. E’ ancora presto per dire quale sia la loro natura e se si tratti di un vero flusso o di un processo marginale e limitato nel tempo ma resta il fatto che, almeno nel sistema mediterraneo, non esiste un “flusso 0”. Assumerlo come obiettivo militare e politico è una grave e colpevole illusione che finisce per alimentare effetti drammatico come il traffico clandestino dei migranti, la tratta, le migrazioni irregolari e incontrollate. Come effetto primario, però, produce un annullamento di diritti fondamentali [Vassallo – Cutitta]. L’unica vera soluzione alle migrazioni illegali è l’apertura di vie legali e sicure. Questa è stata l’idea di base dei “corridoi umanitari” promossi dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia insieme alla Tavola valdese e alla Comunità di Sant’Egidio [Sangiorgi, Rosso, Trotta, Del Bono]: aprire una via di fuga per soggetti vulnerabili potenzialmente titolari dell’asilo o della protezione internazionale concedendo loro un visto d’ingresso in Italia sulla base giuridica dell’art 25 del Trattato di Schengen sui visti. La norma ordinaria impone che per godere della protezione si debba prima rischiare la vita e affidarsi ai trafficanti; il meccanismo dei corridoi umanitari aggira questa condizione capestro lesiva di un diritto fondamentale, garantendo una via sicura e legale a soggetti vulnerabili individuati in specifiche categorie come vittime di tratta, persone che hanno subito torture o persecuzioni, individui bisognosi di terapie urgenti e vitali non disponibili nei paesi in cui risiedono, donne sole in condizioni di vulnerabilità, profughi evacuati da teatri di guerra. L’esperimento italiano, varato nel 2015 con la firma di un Protocollo d’intesa tra la Federazione delle chiese evangeliche, la Tavola valdese, la Comunità di Sant’Egidio da una parte e, dall’altra, i ministeri dell’Interno e degli Affari Esteri ha consentito a 1000 profughi l’ingresso sicuro e legale in Italia tramite un “visto umanitario”. Giunti in Italia, i beneficiari hanno immediatamente fatto domanda di asilo che, confermando la qualità del lavoro preliminare di screening compito dagli operatori del progetto in Libano, per i casi sin qui giunti a conclusione, è stata positiva nella misura del 100%. Come noto il modello è stato replicato da un secondo protocollo firmato dalla Conferenza episcopale italiana, per altri 500 visti dall’Etiopia; in Francia è stato varato per 500 visti, secondo modalità analoghe a quelle italiane; in Germania e in Svizzera se ne discute con interesse mentre varie personalità – il presidente del Parlamenti europeo Tajani, il presidente della Repubblica Mattarella, papa Francesco – hanno ripetutamente e pubblicamente espresso il loro sostegno a questa “buona pratica”. In pochi mesi i “corridoi umanitari” italiani hanno ricollocato più persone dei resettlement dell’Unione europea. Non abbiamo la pretesa di affermare che essi sono “la soluzione” alla questione migratoria ma certamente indicano un modello che l’Europa potrebbe adottare. Mille visti sono una goccia nell’oceano ma, in un Europa a lungo immobile e  indifferente, sono stati un’iniezione di sostenibilità e di speranza. Un piccolo gruppo di credenti, espressione della società civile, ha dimostrato che “si può fare” e che, anche nelle maglie strette della legislazione vigente, esistono delle opportunità che vanno colte e valorizzate. Questo è stato e dovrà essere il nostro impegno.
  4. L’affermazione del Presidente della Commissione Junker che “sui migranti l’Italia ha salvato la coscienza dell’Europa” contiene l’implicita ammissione che sui migranti l’Europa ha fallito. Invece di cercare politiche e misure di governo dell’immigrazione, vari paesi dell’Unione hanno iniziato a costruire muri e barriere difensive, arrivando a negare il sostegno alla prosecuzione di Mare Nostrum che con le sue attività di search and rescue ha salvato oltre centomila persone. Per uno strano destino l’utopia dello spazio aperto europeo si è scontrata con il realismo della paura dell’immigrazione. E così, a poco più di vent’anni dalle ultime adesioni al Trattato di Schengen, il tema europeo non è più quello dell’apertura dei confini ma, al contrario, della loro trasformazione in frontiere chiuse e impenetrabili ai migranti e ai richiedenti asilo. Guardando al futuro prossimo, sono in molti a profetizzare che se questa Europa non saprà dare una soluzione a questo problema, condanna se stessa al fallimento politico e morale. Lo pensiamo anche noi ma, a differenza di altri, vogliamo affermare che se questo accadrà la responsabilità sarà anche nostra. Certo, nessuno di noi ha un incarico istituzionale e tantomeno così importante da condizionare le politiche europee. Ma non credo che la società civile possa sottrarsi dal fallimento di un’idea d’Europa inclusiva ed accogliente. Se alla fine ha prevalso ciò che in un gergo un po’ ideologico si definisce “Europa delle banche” questo è anche dipeso dall’incapacità della società civile europea – sindacati, associazioni, movimenti, chiese, comunità di fede,… – di sostenere un altro percorso. Intendo dire che una nuova politica delle migrazioni non potrà essere che il frutto di un’altra Europa, di un’altra cultura della solidarietà tra stati e popoli che hanno deciso di darsi un patto di unità.

Concludendo

Questo convegno è stato voluto ed organizzato da chiese, associazioni ecumeniche, credenti che in questi anni si sono spesi per dare concretezza al messaggio evangelico. Non ho bisogno di richiamare le ragioni spirituali, bibliche e teologiche che hanno orientato questo impegno. Vorrei dire solo qualche parola sull’atteggiamento, sulla “postura” con cui a mio avviso dovremmo proseguirlo.

Innanzitutto direi un atteggiamento di libertà. Liberta di dire la verità, di non lasciarci condizionare dai giochi di cordata o dalle opportunità del momento. E’ con questo atteggiamento che sin dall’inizio abbiamo avviato Mediterranean Hope – Programma Rifugiati e migranti della FCEI, non a caso prendendo a prestito una frase di Martin Luther King: “La vigliaccheria chiede: è sicuro? L’opportunità chiede: è conveniente? La vana gloria chiede: è popolare? Ma la coscienza chiede: è giusto? Prima o poi arriva l’ora in cui bisogna prendere una posizione che non è né sicura, né conveniente, né popolare; ma bisogna prenderla, perché è giusta”.

Un secondo atteggiamento è quello che definirei di “assunzione della precarietà”. Lavoriamo su una materia fluida, con processi che cambiano rapidamente e che chiedono continui cambiamenti di rotta. Sbagliato fossilizzarci, inutile costruire grandi apparati, rischioso programmare a lungo termine. Davvero, biblicamente, a ciascun giorno il suo affanno, certo avendo in mente un disegno e una prospettiva. Ma con un atteggiamento mentale sempre aperto al nuovo e disponibile a cambiare metodi di lavoro ed obiettivi.

La terza, inevitabile, parola è quella della “speranza”. Nel tempo i cui sentiamo crescere un’onda che disprezza gli immigrati, li teme come una minaccia economica, sociale e persino religiosa, siamo evangelicamente portatori di una “speranza contro speranza”. Chi ha vissuto l’esperienza dei “corridoi umanitari” ha toccato con mano questa semplice verità della fede. Per esempio ha visto che anche Falak, una bambina ormai priva di un occhio, devastata da una malattia che certamente non si poteva curare abitando in un garage nella periferia di

Beirut, poteva riprendersi in mano la sua vita. Oggi Falak va a scuola, parla l’italiano ed è una bambina felice grazie al fatto che, insieme, abbiamo agito e sperato contro speranza.

Bibliografia

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