di Francesca Sironi via L’Espresso, 20 giugno 2018
C’è la politica che grida, e quella che risponde. La politica che insulta, minaccia. E quella che prova a risolvere, che accoglie, che ha a cuore la coesione sociale. Oggi in Italia sono ospitati circa 170 mila richiedenti asilo. Vivono in strutture temporanee, coordinate dalle prefetture, o in centri ordinari che rientrano nel sistema Sprar dei Comuni. Per entrambi i rami, il ruolo del ministero dell’Interno è centrale. Ma con un titolare del ministero sempre più demagogico nelle scelte che prende e sostiene, senza opposizioni nel resto del governo, l’infrastruttura dell’accoglienza si trova ora sbalzata su una nuova frontiera.
«Lo avvertiamo. Il discorso d’odio è più facile. Chi era contro i progetti si sente autorizzato a parlare più forte», riflette Matteo Vairo, operatore in una cascina della rete di Don Gallo che si trova in provincia di Alessandria, dove abitano 18 profughi: «Con il Comune abbiamo un rapporto ottimo, i ragazzi fanno spesso i volontari, organizziamo eventi. Gesti ostili non ne abbiamo mai vissuti. Ma siamo preoccupati». In provincia di Brescia sono già accaduti anche i gesti, invece: molotov contro un albergo che avrebbe dovuto ospitare dei migranti ; attacchi istituzionali a chi si occupa di integrazione.
«Il periodo elettorale è stato difficilissimo. Sono stato invitato ad alcuni dibattiti: quando mostravo la busta paga, spiegavo come lavoriamo, esponendo numeri e conti in modo trasparente, non volevano ascoltare. Ci urlavano “ladri” e basta. Alcune tv hanno trasmesso attacchi contro i profughi ogni settimana. Loro sentivano quello. Alla fine abbiamo preferito rimanere sottotono», racconta Carlo Cominelli, responsabile di K-Pax, una cooperativa che si occupa di rifugiati nell’alta Lombardia, con risultati d’inclusione eccellenti: «Assurdamente, le cose stavano cominciando ad andare meglio, ultimamente: riusciamo a dare più prospettive di occupazione, su impieghi da panettieri, tornitori, o in fonderia. E i controlli voluti dall’ex ministro Minniti nei centri straordinari stavano portando, almeno qui nel Bresciano, alla chiusura delle strutture improvvisate, migliorando gli standard. Ora, invece, siamo di nuovo in attesa».
Liviana Marelli rappresenta il coordinamento nazionale delle comunità per minori, italiani e stranieri. «La nostra paura», racconta: «è che venga distrutta la parte eccellente di quanto abbiamo costruito a fatica fin qui. Ovvero il modello dell’accoglienza diffusa, in piccoli numeri, da cui provare a impostare legami di vicinanza. Che aiutano tutti ad andare oltre gli stereotipi. Temiamo si torni ai grossi centri, che creano più conflitti e dolore, solo per avere un maggiore controllo. Le strutture disoneste, quelle del “business”, vanno semplicemente chiuse, non cavalcate, come sta accadendo». È nell’abbandono, nelle ipocrisie sui flussi, nelle incertezze burocratiche, nelle strutture aperte di corsa per un’emergenza che non è più tale, spiegano, che nasce il degrado.
Mentre a dare forza a chi si occupa seriamente d’accoglienza sono quelle buone pratiche. La verità dell’esperienza, sul territorio, dove i legami sono possibili, in segno spesso opposto rispetto alla paura macinata dai leader. «Ciò che interessa ai prefetti come ai sindaci, di destra o di sinistra, ai cittadini come alle forze sociali, a tutti, è in fondo solo che le cose funzionino. Ma funzionano soltanto quando i servizi ci sono, e vengono gestiti bene», aggiunge Oliviero Forti della Caritas: «Penso a un esempio: in provincia di Benevento supportiamo una rete di Comuni che grazie ai richiedenti asilo può tenere aperte le scuole, fermando lo spopolamento, dando lavoro ai residenti, trattenendo i giovani. Non dico sia semplice, o ovunque ugualmente positivo il risultato, ma c’è un intero paese che sa cosa significa integrazione». Che non lo dice forse abbastanza.
Attaccare queste esperienze significa allora non solo non risolvere un problema. Ma crearne. Aumentare il rischio di faglie, e conflitti. Nel contratto di governo alla voce “immigrazione” sono dedicate tre pagine in cui si insiste soltanto sui rimpatri, sui controlli, sulla creazione di hub regionali in cui si avverte l’ombra dei vecchi Centri d’espulsione, sul togliere “i servizi ai privati” e alzare frontiere. «Mentre dovremmo ricominciare a parlare d’integrazione, e non solo di sbarchi», riflette Mohammed Saady, referente nazionale sui migranti della Cisl. «È il momento di farci sentire», gli fa eco da Scicli, in Sicilia, Giovanna Scifo, mentre corre da appuntamento all’altro nell’hub per minori di cui è coordinatrice, un progetto della chiesa Valdese intitolato “Mediterranean Hope”, speranza mediterranea, una speranza sempre più sotto attacco: «Noi almeno abbiamo la federazione valdese, che sostiene l’attività sia economicamente – contiamo solo sull’8 per mille, per portare avanti il centro – sia socialmente e sul piano politico nazionale. Ma la sinistra invece dov’è? Io ho 57 anni, sono di sinistra, sono qui per l’urgenza dell’impegno etico e morale che mi muove nei confronti del prossimo. Chi ci rappresenta?».
Il 20 giugno, ricorda, sarà la festa del rifugiato. In questo clima istituzionale di conflitto, di crisi umane e diplomatiche come quanto accaduto all’Aquarius, «bisognerebbe ritrovare l’impegno sociale. Su Facebook siamo sommersi d’odio anche noi. A Scicli tutti sanno che lavoriamo per il bene». Tiziana Bianchini, che ogni sera cerca di sottrarre vittime di tratta dalla schiavitù sessuale, con Coop lotta, a Sesto San Giovanni, è convinta della stessa necessità: «Bisogna raccontare la realtà. Le esperienze positive come le difficoltà. Non solo le polemiche ideologiche. Noi che seguiamo le persone fra medici, avvocati, norme, quotidianità, non sempre possiamo dedicarci come servirebbe al lavoro culturale, che è invece necessario». Per dare una risposta all’odio che parta dalla verità possibile dell’accoglienza. Che affronti le riforme necessarie in Italia, e in Europa, nella gestione dei flussi, delle destinazioni, dei servizi, partendo però dalla realtà. E non dagli slogan.