Uno sguardo dalla Tunisia

Tunisia_Giovanni D'Ambrosio

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici, dalle volontarie e dai volontari, di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Lampedusa ed è un report – in due parti – scritto da Giovanni D’Ambrosio e Laura Guani dopo una missione in Tunisia.

Roma (NEV), 27 marzo 2023 – A partire dall’autunno del 2021, l’Osservatorio sulle migrazioni di Mediterranean Hope, programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, a Lampedusa ha iniziato a notare un incremento delle partenze dalla Tunisia. Inizialmente si trattava principalmente di persone con cittadinanza tunisina, anche se accadeva sempre più spesso di assistere ad approdi di imbarcazioni con a bordo persone esclusivamente subsahariane che utilizzavano la Tunisia anziché la Libia come porto di partenza. In diverse occasioni abbiamo sottolineato la particolarità di una rotta migratoria sempre più attiva, quella che collega Sfax a Lampedusa e che vede persone giovani, soprattutto uomini ma anche moltissime donne, bambini e bambine provenienti soprattutto dalla Costa d’Avorio e dalla Guinea Conakry, tentare l’attraversamento del Mediterraneo verso l’Europa. Un anno dopo, nell’ottobre 2022, questa rotta diventa improvvisamente la principale via di accesso alle coste italiane. Cambia la tipologia di imbarcazioni utilizzate e gli arrivi a Lampedusa aumentano nonostante la stagione fredda e il brutto tempo caratterizzi questo periodo. I viaggi, resi ancora più rischiosi, provocano decine di morti e dispersi. Mese dopo mese, a Lampedusa si assiste a un aumento vertiginoso e anomalo degli approdi che raggiunge l’apice a febbraio con oltre 7mila arrivi. Si tratta, per la grandissima maggioranza dei casi, di persone subsahariane partite da Sfax, in Tunisia. Il paese nordafricano vive intanto un periodo di forte crisi economica e politica. […]


Le testimonianze e le osservazioni presentate in questo report sono state raccolte da Laura Guani e Giovanni D’Ambrosio durante un soggiorno a Tunisi e nei dintorni della città costiera di Sfax tra il 9 e il 18 marzo 2023. Hanno coinvolto alcuni soggetti attivi nella società civile e nell’associazionismo della capitale, un giornalista e pescatore di una radio locale del governatorato di Sfax, alcune persone migranti in presidio permanente di fronte agli uffici dell’OIM a Tunisi. Le interviste sono state condotte sia in maniera strutturata che informale. Le frasi riportate di seguito sono state estrapolate da alcune registrazioni di interviste avvenute con il consenso – sia alla registrazione che alla sua diffusione – delle persone che hanno partecipato.


Di fronte all’OIM. Proteste e rivendicazioni della comunità subsahariana in Tunisia.

Decine e decine di tende, materassi, bombole del gas, teli e cerate si sommano una sull’altra nella strada che circonda la sede dell’OIM a Tunisi. La puzza, la sporcizia, la spazzatura fanno da contorno a quello che è a tutti gli effetti un accampamento non lontano dal centro di Tunisi.

La sede dell’OIM sembra un piccolo fortino: filo spinato, cancelli, grate. Intorno, decine e decine di persone si sono rifugiate per cercare un posto sicuro dopo gli attacchi subiti nelle ultime settimane.

“Dopo il discorso del presidente (discorso di Kais Saied del 21 Febbraio 2023) che ha ordinato alle persone tunisine di non sostenerci in nessun modo e di non darci un lavoro alcune persone tunisine hanno iniziato ad attaccare noi neri nelle nostre case e fuori dalle nostre case. Specialmente noi persone nere subsahariane. Sono successe molte cose a noi, alcune donne sono state violentate e aggredite, alcuni uomini sono stati picchiati da uomini tunisini” [J.]

J. è un ragazzo della Sierra Leone. Quando lo incontriamo, è ormai un mese che vive di fronte alla sede dell’OIM insieme al figlio di sette anni e alla moglie. Racconta che subito dopo il discorso del presidente la casa dove vivevano è stata attaccata da alcune persone tunisine. Lui stava lavorando e a casa c’era solo sua moglie che è riuscita a scappare ma le hanno portato via tutto, anche il telefono. Dopo quattro giorni lei è riuscita a chiamarlo e si sono ritrovati. Storie di questo tipo sono comuni tra le quasi duecento persone che si trovano accampate nella stretta stradina che costeggia la sede dell’OIM a Tunisi, nel quartiere di Le Lac 1.

“Nella compagnia per cui lavoravo, il mio capo, subito dopo il discorso del presidente in cui ha detto che i neri non possono più stare nel paese, mi ha chiesto di andarmene, ha detto che non voleva più delle persone nere a lavorare con lui. Ho detto “nessun problema, ma voglio essere pagato”. Mi ha risposto che dovevo andarmene e basta, non mi ha pagato perché il presidente dice che le persone nere sono qui illegalmente e non possono neanche avere il diritto a ricevere lo stipendio. Non volevo problemi e me ne sono andato. La stessa notte, il 22 del mese scorso, proprio dopo il discorso del presidente, un gruppo di arabi sono entrati in casa mia, dove vivevo con altre 4 persone che però in quel momento non erano in casa. Hanno distrutto la porta, sono entrati, hanno preso il mio telefono, tutti i soldi che avevo con me, circa 2080 dinari tunisini. Poi hanno iniziato a rompere tutto, la cucina, la nostra televisione, qualsiasi cosa anche la playstation che era l’unica cosa che ci manteneva un po’ felici. Si sono presi tutto il resto. Sono andato in bagno, ho aperto la finestra, sono saltato e sono arrivato sulla strada. Così mi sono salvato. Questo paese non è sicuro. Non so cosa facciano le persone che lavorano in questi uffici, ma non ci stanno aiutando. Io non so sinceramente cosa farò della mia vita”. [A.]

Anche A. è della Sierra Leone, ma ha vissuto tutta la vita da rifugiato in un campo in Guinea Conakry fuggendo dalla guerra decennale che consuma il suo paese. La Tunisia è il secondo paese dove lui ha fatto domanda d’asilo, e in cui ancora aspetta risposta. Tra le persone accampate sono diverse quelle che hanno avuto riconosciuto lo status di rifugiati dalle Nazioni Unite. Un esempio è S., uomo sudanese proveniente dal Darfur. Ha superato il Sudan, la Libia, il Marocco e l’Algeria prima di arrivare a Tunisi. Proprio nel tentativo di superare uno di questi confini, S. è caduto di notte in un fosso fratturandosi un osso del bacino. Da dicembre 2022 si trova a vivere di fronte alla sede OIM, in attesa di cure adeguate che non arrivano.

“Io ho il documento che dice che sono rifugiato, ma non ho nessun diritto, non ho una casa, vivo per strada. Puoi vedere coi tuoi occhi casa mia laggiù, qui in strada. Ecco, qui c’è il documento che dice che sono rifugiato e guarda: lì è dove vivo adesso. Dovrei avere un posto dove stare, ma non ho ricevuto nulla. Dobbiamo comprarci tutto quello che ci serve, non ci danno nulla, neanche l’acqua”. [S.]

Quando torniamo qualche giorno dopo, lo spiazzo di fronte all’ingresso è occupato da nuove tende spuntate un po’ dappertutto occupando lo spazio disponibile. “Le persone continuano ad arrivare da tutta la città e anche dal Sud del paese”, ci racconta sempre S. Tra le persone appena arrivate ci sono tante famiglie, molti bambini e bambine, e anche diverse persone appena uscite da prigione. Dopo il discorso del presidente, gli arresti lampo di persone nere sono aumentati in tutto il paese. Alcuni raccontano di essere stati detenuti per una settimana, altri per poco più di un mese. C., un ragazzo della Costa d’Avorio, spiega come subito dopo essere stato attaccato in casa sua da alcuni giovani tunisini che gli hanno portato via tutto, la polizia invece di aiutarlo lo arresta per poi rilasciarlo dopo alcune settimane. Anche altre persone appena uscite di prigione raccontano di essere state derubate dagli stessi agenti di polizia in carcere che non hanno mai restituito nessun oggetto personale.

Le persone di fronte alla sede dell’OIM a Le Lac 1 aumentano di giorno in giorno perché si sentono più protette. Molti però raccontano di non sentirsi al sicuro nemmeno così vicini alle sedi delle organizzazioni internazionali. Una notte, qualche giorno prima, l’accampamento è stato attaccato da alcune decine di persone tunisine che hanno seminato il panico.

“Guarda il posto dove viviamo, lo vedi? Alcune persone tunisine ci hanno attaccato, la guardia di sicurezza dell’OIM ha chiamato la polizia solo quando se ne sono andati. Loro lo fanno per intimidirci, ma perché sono così aggressivi con noi? Lasciamo stare per un attimo che siamo africani, noi siamo essere umani prima di tutto e perché ci descrivono come dei criminali? Anche prima del discorso del presidente non eravamo in un bella situazione ma un pochino migliore perché nel 2021 e nel 2022 c’erano molte persone nere che lavoravano ed anche se ci pagavano sempre meno del salario medio (circa 100 dinari in meno) ci andava bene perché almeno non eravamo attaccati in strada da persone tunisine, a volte ci insultavano ma finchè non si è trattato di aggressioni fisiche potevamo sopportarlo. Ora però ci attaccano e la polizia non è qui per difenderci ma per attaccarci perché se chiamiamo la polizia mentre scappiamo da una persona tunisina che ci sta attaccando loro ci metteranno in prigione, sappiamo che loro non sono qui per proteggerci”. [J.]

In tanti hanno pensato di attraversare il mare per raggiungere l’Europa, alcuni l’hanno fatto ma la guardia costiera tunisina li ha intercettati riportandoli indietro. J. è uno di questi:

“Durante la traversata abbiamo incontrato la guardia costiera tunisina che ha quasi tentato di ucciderci perché avevano due barche con dei motori molto più potenti della nostra, si sono avvicinati a noi creando delle onde che ci rendevamo più instabili. Alcune persone dalla barca hanno iniziato a picchiarci con dei bastoni e ci hanno riportato a riva. Non ha davvero senso che loro facciano i push backs… e per questo chiediamo l’evacuazione, qui non siamo al sicuro. A nessuno interessa di noi, nessuna organizzazione (internazionale) ci dà protezione. Qui niente potrà andare meglio, chiediamo un’evacuazione, anche in Africa, purché sia un paese sicuro”.

Il coro di voci nella stretta via che circonda l’OIM è unanime nel chiedere un’evacuazione dalla Tunisia verso un paese sicuro, ovunque esso sia.

“Non ci piace questo paese, vogliamo essere evacuati. Se prendi un qualsiasi mezzo di trasporto pubblico, puoi sentire quello che le persone dicono su di noi con la pelle nera. E se provi a difenderti ti ritrovi in prigione. Non vogliamo restare, vogliamo essere evacuati. Molti tra di noi hanno problemi politici o altre ragioni che non li permettono di tornare nei loro paesi di origine, forse pochi altri vogliono tornare a casa, ma la maggior parte, forse il 90 per cento, voglio essere evacuati verso altri paesi sicuri. Siamo stanchi, abbiamo speso troppo tempo qui e non abbiamo visto nulla da queste organizzazioni internazionali”. [S.]

“Sai, il mio paese non è sicuro e non so dove altro potrei andare perché se torno in Sierra Leone… mio padre dice che dal posto da dove venivamo hanno ucciso tutti i nostri parenti e che lo stanno ancora cercando. E’ per i diamanti che li hanno ammazzati, sai il nostro è un paese ricco in diamanti. Quindi sarò sincero non ho idea di cosa farò, se torno indietro, dove dovrei tornare? Non posso tornare a casa mia e non posso neanche rimanere qui, non è sicuro per me”. [A.]

“Quello che chiediamo all’UE e alla comunità internazionale è solamente di evacuarci in un posto sicuro anche se questo comporterà di tornare in Africa in altri paesi che non siano quelli da cui siamo scappati. Alcuni di noi sono molto stanchi, alcuni di noi sono calciatori, ingegneri, costruttori. Abbiamo delle persone buone tra di noi ma a nessuno sembra interessare, non interessa nemmeno se sei una donna, un bambino, neanche se sei una donna incinta. Sai conosco una donna che era incinta e dopo il discorso del presidente è stata attaccata a casa sua, ha iniziato a scappare, è caduta e ha avuto un aborto. Questa donna non ha avuto la possibilità di essere visitata da un dottore, non ha potuto entrare in un ospedale”. [J.]

Pochi giorni dopo la nostra partenza, il 21 marzo 2023, ci arriva una chiamata da J. Si trovano di fronte alla sede dell’UNHCR a manifestare per chiedere l’evacuazione dal paese, contro il razzismo e le discriminazioni e per dimostrare che non hanno paura a farsi vedere in mezzo alla strada, pubblicamente, chiedendo che siano rispettati i loro diritti.

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