Migranti, i 101 siriani salvati dai corridoi umanitari

La Repubblica

Rifugiati diretti in Italia si aggiungono ad altri 100 partiti qualche settimana fa. Grazie alla Comunità di Sant’Egidio e alla Federazione Chiese Evangeliche, a loro è stato risparmiato il destino penoso dei barconi

dal nostro inviato ALBERTO STABILE

BEIRUT – Le valigie con la scritta “Corridoi umanitari” e il nome del proprietario sono ordinatamente raccolte in un angolo della grande palestra. I bambini, elettrizzati dalla partenza imminente, si rincorrono gridando. I genitori fingono di trattenerli, ma via via che si avvicina l’ora del decollo, non riescono a nascondere la loro inquietudine. Sono 101 rifugiati siriani diretti in Italia, che si aggiungono ad altri cento partiti qualche settimana fa ai quali, grazie all’iniziativa della Comunità di Sant’Egidio e della Federazione delle Chiese Evangeliche, d’intesa con il governo italiano, è stato risparmiato il destino incerto e penoso dei barconi.

Qualcuno c’è andato molto vicino a mettersi nelle mani degli scafisti. Altri, semplicemente, non hanno mai smesso di pregare finché non è arrivata la buona nuova che li ha portati sin qui, nel College Saint Gregoire, a Geitaoui, una scuola con tanto di campetto di calcio, gestita dai gesuiti, l’ultima tappa prima del trasferimento all’aeroporto. Un destino amaro quello di chi è costretto ad abbandonare le propria casa per fuggire dalla guerra – destino condiviso da quasi la metà della popolazione siriana: 11 milioni su 24 milioni di abitanti hanno dovuto trovare rifugio altrove, in patria o all’estero. Ma certamente più fortunato di quello toccato alle migliaia di siriani che hanno scelto di affrontare il mare.

Kevork Istanbulian, un elettricista armeno nato e cresciuto ad Aleppo, e la moglie Tamara, hanno spesso sfiorato la disperazione da quando, alla fine del 2014, sono venuti in Libano con il chiaro proposito di trasferirsi in un altro paese europeo, o occidentale (nel novero delle scelte c’erano ovviamente anche gli Stati Uniti e il Canada) lontano dal mattatoio siriano. “L’Italia – dice Kevork, in un buon italiano appreso negli anni giovanili in cui ha indossato il saio francescano, prima di decidere di toglierselo per contrasti con le gerarchie – era un sogno. E mi sembra incredibile che si sia realizzato. Non dormo da tre giorni”. Sotto lo sguardo affettuoso di Tamara, un ‘insegnante di 30 anni, Kevork ripercorre la lunga odissea famigliare cominciata nell’estate del 2012 quando dalla Turchia muovono colonne di jihadisti per “liberare” Aleppo d’intesa con gruppi di insorti locali. “E noi ci chiedevamo: ma da cosa ci vogliono liberare, se qui non c’è nessuna occupazione?”.

Kevork, che lavorava in una grande aziende d’importazione di materiale elettrico “dal cacciavite al tornio”, dice fiero di se, deve licenziarsi perché l’azienda è nella zona sotto il controllo dei miliziani e si mette in proprio. Ma la vita è ogni giorno più dura: “comincia a mancare la luce, cominciano a mancare i beni essenziali e soprattutto l’acqua. A quel punto decidiamo di partire”. Il Libano è la meta. Come molti siriani e iracheni, Kevork affitta una casa. Ha promesso a Tamara che si prenderà cura dei sui vecchi genitori, il suocero, 83 anni, è malato di Parkinson. Trova lavoro. Ma quello che entra in casa ogni mese non basta. Da qui, la ricerca disperata di una via per l’estero, o il ritorno ad Aleppo dove la guerra, è storia di questi giorni, diventa ogni giorno più cruenta e senza regole. Poi la telefonata di un amico che aveva saputo dei “Corridoi umanitari”. Visto concesso. La felicità negli sguardi di marito e moglie..

Sono le ragioni umanitarie la causa prima per poter ottenere il visto, spiega Massimiliano, l’addetto stampa di Sant’Egidio. Sami, un autista di 40 anni, originario di Homs, la città martire della guerra siriana, è un padre di famiglia che deve fronteggiare un doppio caso di talassemia, (la mancanza di emogloblna che determina uno stato di anemia permanente) della moglie e di uno dei quattro figli, un’altra figlia ha problemi alla vista. “Prima della guerra potevo contare sull’assistenza sanitaria gratuita, ma adesso tutto è diventato complicato e difficile. Spero soltanto che in Italia possa riuscire a curare i miei figli”.

Di bambini con gravi malattie o disabilità ce ne sono 14. In totale, nel gruppo di rifugiati in partenza, ci sono 44 bambini, ma non tutti possono contare su un una famiglia. In dieci casi il nucleo familiare è costituita soltanto dalla mamma. Aziz è invece un giovane di 23 anni, solo. Ha il taglio alla caimano e i pantaloni stretti alle caviglie. Viene da Khamishli, zona prevalentemente curda. Sei mesi prima di ricevere la chiamata alle armi ha a deciso che non avrebbe partecipato alla mattanza fratricida ed è fuggito in Turchia. Da lì a Beirut. Ha fatto il parrucchiere e il disc-jockey. Avvenire assicurato. Prima di uscire, il rappresentante delle Chiese evangeliche, Francesco Piobbichi, mi invita a riflettere su un dettaglio, le valige. “Sono stato spesso a Lampedusa – dice – lì i migranti arrivano nudi, senza niente. Qui partono con la valigia. E’ importante perché dentro ogni valigia c’è una storia”.

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MH
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