“Ahlan wa sahlan bilagiyyn”. Benvenuti rifugiati

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Beirut, in Libano, ed è stato scritto da Silvia Turati.

Beirut (NEV), 30 ottobre 2019 – Queste parole mi ricordano la campagna europea che si batte per l’apertura dei porti e per l’accoglienza dei rifugiati. Questa volta però sono in Libano e questo slogan viene cantato da alcuni gruppetti di libanesi che in piazza protestano da 14 giorni.

Fa un certo effetto sentire questi inni all’accoglienza, quando, dopo diversi anni in terra libanese, sento la voce dominante dei rifugiati siriani e palestinesi lamentare l’insofferenza del popolo libanese verso di loro. Episodi di razzismo, sfruttamento, talvolta violenza. Il loro sentirsi la causa di ogni male.

A questa insofferenza di una parte della popolazione si sono aggiunte le mosse del governo libanese, volte a scoraggiare la presenza siriana sul territorio. Risale per esempio a qualche mese fa la decisione di rimpatriare con la forza tutti coloro che hanno fatto ingresso sul territorio libanese in maniera illegale, dopo il 24 aprile 2019. Così, ad oggi, risultano più di 2700 persone riportate forzatamente al confine, talvolta senza una prova certa della loro data di ingresso in Libano.

Oltre a questa misura, ricordo la decisione della scorsa estate di smantellare tutte le costruzioni di shelter in muratura all’interno dei campi profughi della regione di Arsal, al confine con la Siria, lasciando solo quelle tende costruite con legno e plastica, come a voler mandare un messaggio chiaro: la presenza dei siriani deve essere solo temporanea.

Questo si ricollega a quell’ansia sociale e politica che riguarda invece la presenza dei palestinesi della diaspora, arrivati sul territorio libanese a partire dal 1948 e ancora “bloccati” in una sorta di limbo che dura da 70 anni.

Fa un certo effetto quindi sapere che qualcuno è consapevole che i rifugiati siano stati colpevolizzati da vari personaggi politici di essere responsabili di vari mali di cui soffre oggi il paese (la crisi economica, l’inquinamento spaventoso, la mancanza di lavoro, l’insicurezza, il terrorismo, etc.), con lo scopo di trovare un capo espiatorio e continuare a fare i propri interessi.

Tuttavia è opportuno tenere conto della complessità del contesto in cui ci troviamo: la grave crisi economica, il vicino conflitto in Siria e l’accoglienza ad oggi di circa 1 milione di profughi siriani (a fronte di una popolazione di meno di 5 milioni di abitanti), con picchi di 2 milioni qualche anno fa. Il tutto su un territorio grande quanto l’Abruzzo.

foto di Halima Tanjaoui

Le proteste sono arrivate a quasi due settimane e nonostante i vari disagi nel paese, decidiamo lo stesso di muoverci per continuare il nostro lavoro. Ci dirigiamo verso la valle della Beqaa dove siamo costretti a sperimentare percorsi secondari, in quanto la strada principale è bloccata dai manifestanti. Impieghiamo il doppio del tempo per raggiungere la nostra meta ma in compenso godiamo della vista di un po’ di natura e bei paesaggi, che tanto ci mancano nel delirio di Beirut.

Incontriamo alcune delle persone che avevamo contattato per svolgere i colloqui e ci rendiamo subito conto di quanto queste due settimane di proteste stiano influendo sulla vita dei rifugiati.

B. è molto spaventato, perché tutto quello che sta succedendo in Libano ora gli riporta alla mente la Siria e l’inizio della rivoluzione. Mi permetto di suggerirgli di stare tranquillo, che per lo meno qui non siamo in presenza di un regime dittatoriale. Mi fissa negli occhi e mi dice “ti sbagli”. So che probabilmente non mi sbaglio, ma in quelle parole e in quello sguardo leggo i traumi di quegli 8 anni di guerra che ti portano a guardare la realtà da un’angolatura diversa, quella della paura.

Purtroppo mi rendo conto di quanto ne risentano le tasche dei più poveri, siriani e non. I costi dei trasporti aumentano improvvisamente, in quanto i mezzi sono costretti a seguire strade secondarie, molto più lunghe. B. ha pagato 7000 lire per venire da noi, invece che 2000 come avrebbe dovuto. Ci dice che il costo delle bombole del gas (utilizzate in Libano per cucinare) è passato da 10 dollari a 20 dollari. Era solito comprarne due, vista la sua numerosa famiglia, ma questa volta ne ha comprata solo una.

La difficoltà di spostamento incide poi in maniera importante sulla possibilità di trovare lavoro. Le fasce più povere della popolazione (tra cui la maggior parte dei siriani) sono soliti cercare lavoretti giornalieri, nell’agricoltura o nei cantieri. Ma con il blocco del paese diventa quasi impossibile.

Intanto la piazza non molla e si continua a cantare. Speriamo profondamente che la determinazione del popolo, anche nei disagi arrecati, possa portare alla costruzione di un futuro migliore che riguardi soprattutto le fasce più deboli della popolazione: libanesi, palestinesi, siriani, lavoratori migranti.

 

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