Il corridoio di fuoco

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). O dalle volontarie e dai volontari che accompagnano per periodi più o meno lunghi il percorso di MH. Oggi “Lo sguardo” proviene da Roma ed è stato scritto dal volontario del servizio civile Lorenzo Sgro.

Roma (NEV), 15 luglio 2022 – Arrivo in taxi all’aeroporto di Fiumicino alle 19 del 30 giugno per il corridoio umanitario dalla Libia previsto per la sera stessa. Siamo al Terminal 5, in disuso da qualche anno ma rimesso in funzione di tanto in tanto, ad esempio per i corridoi. Per le “occasioni speciali”, insomma. E questa è un’occasione molto speciale. Non solo perché sono in arrivo ben cento migranti (“beneficiari” nel gergo del settore) salvati dai centri di detenzione in Libia bensì perché questo è il mio primo corridoio umanitario. È il mio battesimo del fuoco. I colleghi veterani mi raccontano che si tratta di eventi piuttosto faticosi. I beneficiari sono tanti. Prima che arrivino bisogna predisporre tutto, i pasti, i vari dispositivi di protezione individuale anti-Covid.

I beneficiari arrivano verso le 21. Quando scendono dalla navetta e varcano l’entrata del terminal, sono tutti sorridenti, salutano accennando un “ciao”, in italiano. Sembrano sereni nonostante il viaggio e le atrocità subite, che io posso solo vagamente immaginare. C’è una famiglia di sei, genitori e quattro figli, tre maschietti e una femminuccia di quasi due anni. Sono tutti vestiti eleganti, quasi come a un matrimonio. I maschi della famiglia portano giacca, camicia bianca e papillon, mentre la madre e la bambina abiti lunghi bianchi. I colleghi mi spiegano che molti si vestono bene prima di partire. Mi vengono subito in mente le immagini dei nostri telegiornali, con i migranti sbarcati a Lampedusa in massa, salvati da gracili gommoni mezzi affondati e vestiti di stracci… Tutta un’altra storia.

C’è una giovane donna, nemmeno trent’anni, con tre figlie, una di cinque anni e due gemelline di quasi un anno. Accanto a lei c’è un ragazzo all’incirca della stessa età, che l’aiuta e che però non è il marito. Mentre la madre tiene le più piccole e cerca di allattarle, la più grande se ne va in giro per il terminal saltellando e sorridendo a tutti. Passerà così tutta la nottata. A un tratto si addormenterà, ma solo tardi. Poi, una volta svegliata per prendere il pullman che la porterà alla sua destinazione, sarà stranita, come tutti i bambini assonnati, e piangerà. Però solo in quell’occasione, solo una volta in tutta la notte.

Le operazioni procedono, il tampone antigenico, le impronte digitali…Nessuno di loro si lamenta. Appena arriva il loro turno, si alzano dal loro posto e ti seguono. Nessuno di loro esita. E come potrebbero? Cosa hanno da esitare? Ormai si sono lasciati tutto alle spalle, non hanno più nulla. È vero, si sono portati appresso dei valigioni pesantissimi, pieni zeppi di tutte le loro cose. Ma cosa possono essere in confronto alla vita che hanno abbandonato? E nonostante questo possiedono ancora qualcosa: hanno ancora tutto da guadagnare, hanno ancora una vita da costruirsi qui in Italia, una vita nuova, serena e lontana da tutte le brutture che hanno dovuto veder e subire.

Alle tre molti beneficiari hanno concluso le operazioni e sono seduti a mangiare e chiacchierare. Rimangono gli ultimi, che si sono addormentati sui sedili di metallo del terminal. Tutti quanti, adulti, ragazzi e bambini.

Sono così stanco che mi sdraierei pure a terra per dormire, ma non mi addormenterei neanche coi sonniferi. Non ho cenato, ho mangiato l’ultima volta quattordici ore fa e non ho fame per niente. Sto ancora in piedi a chiamare i beneficiari per condurli al tampone e alle impronte. Se mi fermo pure un secondo, mi sembra che non ripartirei più.

Alla fine la faccio una pausa. Mangio qualcosa un po’ contro voglia, riprendo fiato un attimo. Verso le cinque finiamo. Tutti i beneficiari partono dal terminal, ognuno diretto alla sua destinazione. Per tornare dobbiamo prendere il taxi. La polaria ci dà un passaggio al Terminal 3, Arrivi, dove c’è un po’ più di movimento rispetto al desolato e sperduto T5. Dal finestrino della camionetta vedo il cielo che si accende a poco a poco. Di solito mi capitava solo a capodanno o dopo i falò sulla spiaggia. Penso, non ero mai salito su un mezzo della polizia per qualcosa di male, adesso ci salgo perché ho fatto qualcosa di buono. Certo, è bello essere aiutati, soprattutto quando non sai che fare. Vale per tutti, in fondo.

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