Salvezza e schiavitù

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Marta Bernardini e Francesco Piobbichi – NEV

Lampedusa, Agrigento, 29 luglio 2015 – 50, 13, 1. Numeri senza nome, come le tombe dei cimiteri siciliani che accolgono i corpi delle persone morte nel mare. 50 persone sono morte la settimana scorsa per attraversare il mare, 13 ieri. 1 invece è il bracciante morto a Nardò. Morto di lavoro, e non semplicemente sul lavoro. Morto per le condizioni in cui viveva. Non parlo per sentito dire, notizie come questa infatti obbligano a sfogliare all’indietro la bibliografia personale, a ritornare indietro di qualche anno.

Io a Nardò ci sono stato per due estati di fila, lavorando in un campo di accoglienza autogestito dai braccianti dal quale poi è scaturito il primo sciopero contro il caporalato. Non penso che sia un destino il fatto che oggi, da Lampedusa, torno a parlare di Nardò. Ho in me la sensazione che questi due luoghi siano infatti collegati, come lo erano nel 2011 quando per le primavere arabe ci ritrovammo nel campo un flusso consistente di tunisini che venivano a lavorare per pochi euro dopo essere passati per Lampedusa. Che cosa ha in comune la frontiera con i campi dei braccianti? Qual’è il filo diretto che lega la loro condizione con quelli che sono chiusi nel Centro di accoglienza? Per capirlo occorre essere qui quando queste persone arrivano e quando da qui ripartono. E’ come se questo scoglio sia per loro, al tempo stesso, il luogo della salvezza ma anche della separazione. Prima Lampedusa non era così, prima Lampedusa accoglieva pubblicamente, umanamente, poi è arrivata “l’emergenza”, i media, gli attori politici, lo Stato con le sue procedure. Qui si è costruito nel tempo un modello che come un tatuaggio segna le persone che arrivano alla frontiera. Li separa da noi, li considera un peso, una possibile infezione, li rende invisibili agli occhi dei turisti, ne cancella le storie, nega loro libertà di movimento così come toglie ai lampedusani che vogliono farlo la possibilità di esercitare la propria umanità. Ecco cosa hanno in comune i casolari pugliesi con quest’isola in questi giorni, l’invisibilità dei migranti. Duole ammetterlo, ma è così. La frontiera contribuisce a creare nell’immaginario comune lavoratori invisibili, senza diritti, pagati quanto basta per sopravvivere nella “fabbrica verde”. Per capire cosa sia la “fabbrica verde” italiana occorre entrarci dentro, sentire le mosche che ti svegliano la mattina, il puzzo della miseria, il peso del ricatto. Mi fanno ribrezzo le persone che dicono che i migranti rubano il lavoro. Ignorano infatti un dato palese: il sistema agricolo italiano ha importato un modello di lavoro schiavizzato nel quale gli unici soggetti che possono lavorarci sono gli invisibili, i non cittadini che non devono mai provare a parlare di diritti, che non pesano sul welfare. La “fabbrica verde” con gli “schiavi neri” è una realtà strutturale nel nostro sistema produttivo, funziona in automazione. I grandi hub dell’ortofrutta smistano i prodotti alla grande distribuzione, i prodotti sono portati dai tir che entrano nei campi, i muletti li caricano nei cassoni che i braccianti riempiono. Si lavora e si compete al massimo ribasso, chi paga meno i braccianti è più competitivo. Questo bacino di forza lavoro è composto da decine di migliaia di persone, minori non accompagnati, donne che subiscono abusi e violenze, come avviene ad esempio nelle campagne di Vittoria in Sicilia. E’ un popolo che cammina e si sposta da nord a sud del paese a seconda della stagionalità dei prodotti. Nessuno sa quanti siano. Nei luoghi dello sfruttamento le telecamere che danno voce al megafono dell’intolleranza non entrano, in questi campi non ci sono striscioni a favore del decoro né signore che protestano cantando l’inno nazionale. Quello che c’è invece è una cosa che nessuno denuncia, è un sistema normativo che crea clandestinità, che introduce in Italia come mai era avvenuto nella storia moderna il reato di disoccupazione legando il permesso di soggiorno al lavoro. Questa legge, insieme alla normativa elefantiaca sul diritto d’asilo crea una vasta platea di candidati allo schiavismo per le nostre campagne, mette migliaia di persone nelle mani dei caporali. La frontiera invece, con il suo spettacolo che sollecita la paura collettiva, insegna a tutti che loro sono diversi da noi, che loro possono subire ogni sopruso cancellando la loro dignità in cambio “dell’accoglienza”. Come una beffa, poi, molto spesso gli stessi prodotti che qui i braccianti migranti raccolgono per un pugno di euro al giorno invadono i mercati africani, mettendo in crisi così le fragili economie locali. Creando disoccupazione e costringendo molti giovani a migrare. Ogni volta che ho detto ai migranti a Lampedusa “benvenuti in Italia”, sapevo che molti di loro sarebbero finiti nella fabbrica verde per essere sfruttati pesantemente. Sono salvi dal mare, ma il prezzo che molti di loro pagano nell’indifferenza generale si chiama riduzione in schiavitù.

MH
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