Le speranze dei più vulnerabili

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Simone Scotta – NEV

Beirut, Libano, 27 gennaio 2016 – In questi giorni ci troviamo in Libano, come equipe di “Mediterranean Hope”, il progetto della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, per individuare coloro i quali potranno spostarsi in Italia attraverso i corridoi umanitari. Le visite alle famiglie, nei campi, nei garage, in appartamenti malmessi sono la quotidianità di queste lunghe giornate, intervallate da incontri con ONG e istituzioni locali.

Alcuni dettagli rimangono particolarmente impressi: come il viso di Najwa, per iniziare, che ripone in noi tutte le speranze che ha di lasciare il posto in cui vive, Al-Qubba, quartiere “siriano” di Tripoli, nel nord del Libano. Porta con fierezza il suo velo, è il velo da occasione importante, sembra una kefiah palestinese ed è, effettivamente, molto bella.

Sorride a noi, si sforza quasi, continua a mostrarsi cordiale, insiste perché prendiamo non uno, né due, ma tre numeri di telefono per contattare la famiglia: dobbiamo essere certi di poter comunicare con lei. Vorrebbe che non ci togliessimo le scarpe, cosa che sempre avviene in questo paese per portare rispetto verso chi accoglie ospiti in casa. Siamo noi quelli onorati di poter incontrare persone come lei, che hanno vissuto esperienze, semplicemente, narrabili solo in parte.

Il marito, Adlan, dagli occhi neri, deboli, piccoli e con “poca” pupilla, è ansioso di raccontarci la sua storia, non capisce perché indugiamo così tanto a fare domande agli altri membri della famiglia. Il medico che fa parte della nostra equipe gli diagnostica la poliomielite a una gamba e nell’altra un trauma molto forte che non gli permette di camminare bene. Sovrappensiero stavo per scrivere “non gli permette di scappare bene”… cioè quello che stava facendo ad Homs quando c’erano i bombardamenti nel suo quartiere e lui cercava di salvarsi, scappando via, lontano.

Non posso non proseguire che con J., che è stato in carcere per 113 giorni. La sua colpa? Quella di aver portato manifestanti anti-governativi in ospedale. Fu lì che fu catturato, detenuto prima ad Homs, poi a Tartouz. Torturato ripetutamente sulla schiena con una sorta di sega solitamente utilizzata per tagliare la legna. Su J., però, sulla pelle viva. E nella mia testa lui diventa “Sigara Chazaya”: lo definisco così, quasi fosse il suo nome vero. Sigara come i mozziconi di sigaretta spenti sulle braccia e sui piedi dalle guardie in carcere, Chazaya come i residui di tre diversi ordigni esplosi e ancora presenti nel suo corpo.

Queste sono alcune storie di “fortunati”. Note a margine di un conflitto più grande di loro, lasciandosi alle spalle una vita precedente di cui non hanno colpe, avranno finalmente una seconda occasione, la possibilità di inserirsi in Italia e provare a ripartire, iniziare una seconda vita.

Najwa, Adnan e J. arriveranno in Italia grazie ai corridoi umanitari: mi auguro che al più presto altri paesi europei possano seguire questo piccolo esempio di civiltà.

MH
MH
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