L’abisso negli occhi

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Alberto Mallardo, operatore presso l’Osservatorio sulle migrazioni di Lampedusa

Lampedusa, Agrigento (NEV), 9 novembre 2016 – In occasione dell’ultima tragedia consumatasi nel canale di Sicilia, ancora una volta mi sono accorto che vivere sul confine di Lampedusa può esporti alla visione della morte, della violenza e della sofferenza. Mi dispiace associare l’isola alla morte, un’isola a cui voglio bene per le tante persone che la abitano, per quelle che l’attraversano, per i suoi splendidi paesaggi e per la sua storia. Un’isola che ha significato e significa, per migliaia di persone, la salvezza. Ciò nonostante, in questo luogo, la salvezza di alcuni s’intreccia indissolubilmente alla morte di altri. Assistiamo così, impotenti, giorno dopo giorno, a continue tragedie che si consumano nel mare intorno a noi, tra Lampedusa e la Libia.Troppo spesso a Lampedusa abbiamo contato i morti e faticato nel consolare chi è sopravvissuto.

Due settimane fa abbiamo celebrato una piccola funzione nel “cimitero vecchio” del paese: non più di sei persone raccoltesi alla spicciolata grazie a un giro di chiamate veloci, persone che hanno interrotto quello che stavano facendo quella mattina perché c’era una ragazza di cui non conoscevamo l’età, la nazionalità né tantomeno il nome che giaceva per terra in un sacco. Don Carmelo – il nuovo parroco – dopo aver benedetto il corpo senza vita è uscito dalla camera mortuaria pronunciando alcune parole. Nessuno di noi la conosceva e lei non conosceva noi. Il pomeriggio stesso è stata trasferita in aereo a Palermo ma non sappiamo dove sia stata sepolta. E ancora una volta la sofferenza ti si attacca addosso. Una sofferenza accentuata dalla consapevolezza che tutto ciò potrebbe essere evitato se solo lo si volesse.

La settimana appena trascorsa è iniziata con un altro naufragio di centinaia di persone. Soltanto 29 persone sono state recuperate vive dalla Guardia Costiera e sono giunte a Lampedusa nella tarda notte del 2 novembre. Nel mare, centinaia di dispersi. Arrivati al molo, non ci è rimasto che disporre i generi di prima necessità che siamo soliti distribuire nella consapevolezza che questa volta non saranno di grande conforto. Abbiamo preparato il tè, scartato le coperte termiche e aspettato l’arrivo delle motovedette della Guardia Costiera. La prima persona giunta a terra era gravemente ustionata ed è stata trasferita con urgenza al poliambulatorio. Quella notte, le facce di chi operava sul molo riflettevano lo spaesamento dei sopravvissuti, stremati. Una signora portava con sé una foto del figlio che aveva perso in mare, un’altra non riusciva a smettere di tremare nonostante indossasse pesanti coperte bianche; altri, traumatizzati e scossi, si guardavano intorno confusi. Pian piano sono stati fatti sedere nei pulmini che li avrebbero condotti all’interno dell’Hotspot.

Nel centro, ufficialmente in grado di ospitare 381 persone ma con un grande padiglione da 150 posti letto reso inutilizzabile da un incendio, ci sono al momento circa 650 persone. Tra loro, ovviamente, anche chi è appena scampato alla morte: anime fragili da un punto di vista psicologico ed esauste dopo la traversata.
Nel solo 2016, secondo stime pubblicate dall’Organizzazione Internazionale per le migrazioni sono arrivate in Europa 335.031 persone. Di queste 159.496 solo nel Mediterraneo centrale. Ammontano a circa 4.220 i morti e dispersi. Parafrasando Erri De Luca, ci troviamo di fronte ad un abisso, ad un fondale lastricato dai loro corpi. A Lampedusa, sulle motovedette, negli ospedali e nei centri d’accoglienza è possibile guardare negli occhi quell’abisso. Speriamo che possano dare vertigini a tutti i responsabili.

MH
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